“Vukovar e Krajina non fu genocidio ” la Corte dell’Aja archivia la guerra

by redazione | 4 Febbraio 2015 12:15

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LA CORTE Internazionale di Giustizia ha pronunciato ieri, dopo un processo durato oltre quindici anni, il suo verdetto: né la Serbia né la Croazia hanno commesso, l’una ai danni dell’altra, nel corso della guerra tra il 1991 e il 1995, il crimine di genocidio. L’accusa era stata mossa nel 1999 dal governo croato, avendo per oggetto soprattutto la distruzione di Vukovar; la Serbia aveva a sua volta denunciato la Croazia nel 2010, evocando la cacciata dei serbi della Krajina nella cosiddetta “Operazione Tempesta” che mise fine alla guerra. La sentenza dà un’interpretazione decisamente restrittiva del crimine di genocidio: nelle parole del presidente slovacco Peter Tomka, «atti di pulizia etnica possono far parte di un piano genocida, ma solo se c’è l’intenzione di distruggere fisicamente il gruppo che ne è bersaglio». La decisione è stata presa con una maggioranza di 15 voti a 2 per la denuncia croata; all’unanimità (dunque anche il giudice serbo) per quella di Belgrado.
Prima di valutare la sentenza, è bene districarsi in un ingorgo istituzionale. All’Aja hanno sede ben tre tribunali internazionali. La Corte di Giustizia esiste dal 1945, è il tribunale mondiale delle Nazioni Unite, ed è competente per le vertenze fra gli Stati: perciò ha giudicato del caso fra Croazia e Serbia. La Corte Penale, in funzione dal 2002, è incaricata di giudicare gli individui colpevoli di gravi crimini internazionali che gli Stati non sanno o non vogliono perseguire (non vi aderiscono, fra altri, Stati Uniti, Russia e Cina). Il Tribunale Penale per l’ex-Jugoslavia, istituito dall’Onu nel 1993, è competente per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, commessi da persone nei conflitti di Croazia, Bosnia Erzegovina, Kosovo e Macedonia. Quest’ultima ha raggiunto la sua scadenza, salvo completare i processi a Ratko Mladic e Radovan Karadzic, per cui è attesa la sentenza a mesi. Questa corte ha emesso nel 2004 condanne per genocidio contro imputati serbo-bosniaci del massacro di Srebrenica, luglio 1995: alcune di queste condanne (all’ergastolo, che è il massimo della pena) sono state confermate in appello venerdì scorso.
Dunque la sentenza di ieri non riguarda Srebrenica (8 mila assassinati in quella che l’Onu aveva dichiarato Zona protetta, ammucchiati in fosse comuni per cancellarne le tracce: fu genocidio). La Serbia, secondo la Corte, fu colpevole “solo” per non aver impedito che si compisse.
La sentenza di ieri — salomonica? Ma di un Salomone che ha tagliato in due il bambino — era probabilmente inevitabile di fronte a una fattispecie di reato come il genocidio che, sempre più evocato nel linguaggio comune a descrivere gli orrori, è sempre meno definito tecnicamente, e ancor meno osservato. Infatti il problema col genocidio non è solo la definizione sfuggente, nella qualità e nella quantità, ma anche l’obbligo per la comunità internazionale di intervenire ad arrestarlo. Srebrenica, dove i caschi blu olandesi che dovevano garantire la sicurezza dei rifugiati furono complici o inerti, fu un esempio domestico, europeo, sulla scala delle migliaia, di quello che un anno prima era avvenuto in Ruanda sulla scala del milione. Nel caso della vertenza Croazia-Serbia, è trascorso quasi un quarto di secolo dai fatti, e quindici anni di processo, e il tempo ha lavorato a rendere quasi imbarazzante la sentenza cui i denuncianti avevano puntato.
La Croazia è membro dell’Ue dal 2013, la Serbia è in coda per essere ammessa. Il mese scorso sono ricominciati i voli tra Zagabria e Belgrado. I rispettivi governi hanno commentato ieri augurandosi reciprocamente, e sia pure a denti ancora stretti, la ratifica di un nuovo inizio. Non so se una benintenzionata convenienza politica abbia ispirato i giudici dell’Aja nel negare che si fosse trattato di genocidio, pur ribadendo la gravità dei crimini mutuamente commessi. Da un tribunale internazionale ci si deve aspettare che renda giustizia, prima degli inviti al risarcimento e alla riconciliazione che pure ha voluto esprimere. Soprattutto perché ogni volta che si maneggia il reato di genocidio, a posteriori, com’è inevitabile per i tribunali, si influisce sul modo in cui i genocidi vengono maneggiati da altre autorità nel momento in cui di nuovo avvengono. Nel nord dell’Iraq la persecuzione degli yazidi da parte del cosiddetto Stato Islamico è un caso di genocidio come nessun manuale potrebbe più esattamente descrivere, e oggi a Dohuk, muovendo dai racconti dei rifugiati e delle ragazze sfuggite fortunosamente al rapimento e alle violenze, un tribunale ad hoc curdo composto di un procuratore e un giudice si è insediato in un ufficetto immaginando che all’Aja qualcuno li aiuti a non dissipare memoria e documenti di un’atrocità tuttora in corso — ne riparleremo.
Resta un’osservazione: il termine di genocidio risale al 1944, coniato da Raphael Lemkin, giurista ebreo polacco che si ricordava dell’Armenia 1915 e aveva davanti l’abisso spalancato della Shoah. Occorreva una parola nuova che almeno alludesse al di più che era chiamata a nominare. Nel corso del tempo, la disputa sul genocidio — in Cambogia, in Sudan… — ha via via, per un involontario paradosso, ottenuto di attenuare la gravità degli eventi di cui si tratta: Vukovar incenerita, i malati braccati nell’ospedale, le pulizie etniche, gli stupri etnici, le torture, le deportazioni di milioni, gli almeno centomila morti ammazzati… ma non è stato genocidio, grazie al cielo.
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