Cent’anni di solitudine nell’era dei social network non abbiamo più amici

Cent’anni di solitudine nell’era dei social network non abbiamo più amici

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LONDRA . Cent’anni di solitudine. È il titolo del più famoso romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Ma è anche una malattia della nostra era, forse “la” malattia del ventunesimo secolo: il secolo della rivoluzione digitale, degli smart phone, dei social network, delle chat, dei messaggini, di Instagram, dei videogames giocati in collettivo online, cioè di tutto quello che ci dà la sensazione di essere in contatto con il prossimo ma che di fatto contribuisce a isolarci nel chiuso delle nostre case, delle nostre vite. Passiamo sempre più tempo in compagnia di presunti amici o di perfetti sconosciuti nella realtà virtuale e di fatto sempre più tempo da soli nella nostra esistenza reale. Questo era un fatto noto. Sapevamo o perlomeno sospettavamo che fosse un malessere sociale. Adesso sappiamo che è una vera e propria malattia.
Ce lo comunica una grande indagine scientifica, condotta su un campione di tre milioni di persone e pubblicata sulla rivista Perspectives in Psychological Sciences, di cui il Times e altri giornali britannici hanno anticipato ieri le conclusioni. È un rapporto quanto mai allarmante: la solitudine, affermano gli scienziati della Brigham Young University, l’università dello Utah che ha condotto la ricerca, rappresenta una minaccia alla salute simile all’obesità. Per la precisione, due volte più grave dell’obesità: le persone che soffrono di solitudine, riporta lo studio americano, hanno infatti un “rischio di mortalità” del 14 per cento più alto rispetto alla media. L’aumento del rischio provocato dall’obesità è del 7 per cento. Quello causato dall’estrema povertà, per avere un termine di paragone, del 19 per cento. In pratica si può dire che vivere soli accorcia la vita. E ciò vale, afferma la ricerca Usa, sia per coloro che vivono male la propria solitudine, sia per chi imbocca la solitudine come scelta e apparentemente è felice di stare per i fatti propri. «Solitudine e isolamento sociale possono apparire come due condizioni differenti », osserva il professor Julianne Holt-Lunstad, che ha diretto l’indagine, «ma non è così. Ci può essere una persona circondata di gente che si sente lo stesso molto sola. Altri possono isolarsi deliberatamente perché preferiscono stare soli. L’effetto sulla longevità, tuttavia, è lo stesso per l’uno e per l’altro caso». Un effetto paragonabile ai danni dell’obesità, ammonisce il rapporto, e che perciò le autorità sanitarie devono esaminare molto seriamente: «L’impatto della relazioni sociali sulla salute è enorme», avverte lo studioso.
L’indagine non si limita a segnalare il problema, ne fotografa anche le dimensioni, facendo squillare un secondo, ancora più sonoro campanello d’allarme: da quando il fenomeno viene analizzato, ovvero da quando esistono statistiche in merito, non ci sono mai state tante persone che vivono in solitudine come accade oggi. «Stiamo vivendo al più alto tasso di solitudine della storia umana ed è un dato che si riscontra in tutto il pianeta», dice il dottor Tim Smith, co-autore della ricerca. Il mondo dell’era digitale, precisa, è di fronte a una vera propria “epidemia” di solitudine, lo stesso termine che viene normalmente usato per descrivere la dilagante diffusione dell’obesità. Per certi versi, le due malattie vanno a braccetto: mangiamo troppo e stiamo troppo soli. Difficile non immaginare un adolescente che ingurgita fast food chiuso nella sua stanza collegato a un computer o a un tablet o a uno smart phone o a tutti e tre gli strumenti contemporaneamente. Ma non è un problema soltanto dei giovani, tenuto conto che la categoria di età che gioca di più ai videogames è la fascia dai 25 ai 40 anni e che fra gli anziani la solitudine è così cresciuta che per fare loro compagnia bisogna ricorrere alle badanti a pagamento. Dopo millenni di coesione sociale, il genere umano sta dunque vivendo i suoi “cent’anni di solitudine” e non è chiaro se ci sia una medicina in grado di curare questa malattia dell’uomo contemporaneo.


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