I gas serra non crescono più (e il merito è della Cina)

I gas serra non crescono più (e il merito è della Cina)

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L’ economia mondiale cresce in modo più pulito. L’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie), con sede a Parigi, annuncia che nel 2014 l’emissione totale di anidride carbonica (CO2) è rimasta allo stesso livello dell’anno precedente. Nel frattempo, però, la produzione globale, secondo le cifre del Fondo monetario internazionale, è aumentata del 3,3%. È una svolta di cultura politica ed economica: nell’ultimo quarantennio, con l’eccezione dei periodi di grandi crisi, sviluppo e inquinamento sono andati di pari passo. Evidentemente gli accordi e i faticosi negoziati internazionali cominciano a dare risultati.???La prima avvisaglia era arrivata già domenica 8 marzo. A Pechino il premier cinese Li Kequiang chiudeva il congresso annuale del partito comunista con un’inusuale autocritica: «Il nostro governo è determinato a combattere lo smog. Ma i progressi che abbiamo fatto finora sono troppo limitati rispetto alle attese dei cittadini».
 Li Kequiang, inoltre, ha promesso «pene più severe» a carico degli inquinatori. E non sembrava una minaccia a vuoto. La cappa che opprime Pechino e altre aree del grande Paese è sempre al suo posto. Tuttavia l’inversione di marcia c’è stata. L’economia cinese ha continuato la sua corsa, con tassi di crescita intorno al 6-7%. Eppure, lo scorso anno, il consumo di carbon fossile è diminuito del 2,9%, secondo i dati ufficiali. Così lo scarico di CO2 nell’aria è sceso dello 0,8%. Un numeretto da non sottovalutare. Il gigante orientale è di gran lunga il più grande inquinatore del pianeta. Secondo l’ultimo rapporto presentato alla conferenza di Lima nel dicembre 2014 da Germanwatch (un’organizzazione non governativa), la Cina copre il 23,43% dei 32 miliardi di tonnellate di gas che affliggono l’atmosfera. Seguono gli Stati Uniti con il 14,69%, poi, staccata, la Russia con il 4,8%. L’Italia è all’1,05%. È vero che la classifica si può leggere anche in un altro modo, più politico, calcolando le emissioni per abitante. E allora l’America sarebbe in testa, con gli altri Paesi più industrializzati. Ma, quello che oggi conta davvero è identificare e frenare le fonti di inquinamento più copiose. Da questo punto di vista lo Stato comunista sovrasta tutti gli altri. Negli ultimi vent’anni è stato il protagonista di una scalata economica tanto tumultuosa quanto tossica. Nel 1990 sul pianeta gravava una nube di 21 miliardi di tonnellate di CO2: 4,8 miliardi provenivano dagli Stati Uniti e 2,2 dalla Cina. Da quel momento l’industria orientale ha cominciato ad accelerare. Dal 2000 al 2011 l’impatto sull’ambiente è stato devastante. Ogni anno i cinesi scaricavano una quantità aggiuntiva di CO2 equivalente a quella prodotta dalla Gran Bretagna o dal Canada: tra le 400 e i 500 milioni di tonnellate. Su, su fino ad arrivare al tetto di 8 miliardi di tonnellate.
Un livello insostenibile, anche politicamente. Nei giorni scorsi la leadership di Pechino è intervenuta per cancellare da Internet un documentario sull’aria irrespirabile, rapidamente diventato popolarissimo sul web: «Sotto la cupola», realizzato da Chai Jing, un ex giornalista della tv pubblica.
Sul piano internazionale la Cina è rimasta a lungo isolata nel biasimo generale. Fino a quando, il 12 novembre 2014, Barack Obama non ha convinto il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping a firmare un accordo bilaterale. Gli Stati Uniti si impegnano a ridurre i gas di scarto del 25-28% entro il 2025, partendo dal livello raggiunto nel 2005, mentre la Cina si limita a enunciare l’obiettivo generico di contenere l’inquinamento entro il 2030. A giudicare dalle dichiarazioni del premier Li Kekiang, gli orientali sembrano fare sul serio. Dopo il taglio dello 0,8% del 2014, ora puntano a una riduzione di CO2 del 3,1% nel 2015. Se così sarà l’anno prossimo si potrebbe davvero realizzare lo scenario considerato finora come semplicemente ipotetico dagli studiosi di «economia del benessere»: la produzione sale, l’inquinamento scende.
La conversione cinese, se regge, potrebbe facilitare un’intesa più ampia, nella Conferenza sul clima di Parigi in programma nel dicembre di quest’anno. L’Unione Europea, che comunque tutta insieme produce meno CO2 della Cina, scaduto nel 2012 il Protocollo di Kyoto, ha rilanciato fissando un altro traguardo: -40% di anidride entro il 2030. L’India, il Brasile e gli altri Paesi emergenti potrebbero seguire.
Ancora piccoli passi, d’accordo. Il punto è che le spinte ecologiste della società si scontrano con radicati interessi industriali. Negli Stati Uniti la politica pro-ambiente di Obama è osteggiata fin dal 2009 dalla lobby ancora forte dei petrolieri, raggruppati dall’American Petroleum Institute, più grandi imprese energivore come la Halliburton o la ConocoPhillips. La Cina deve tenere conto delle industrie pesanti e degli agglomerati di Stato.
In America, però, lievita anche il fronte verde, deciso a pesare sulle decisioni del presidente e del Congresso. Le aziende e le organizzazioni della «green economy» (dalla Growth Energy alla Iberdrola Renewebles) sono più di 300.
I timonieri del Dragone, a loro volta, hanno avviato un piano di diversificazione energetica, puntando su fonti rinnovabili e sul nucleare. Con un paradosso: nell’affumicato distretto del Guandong le corporation cinesi e le multinazionali (China Sun Biochem, Renesola) fabbricano la quantità più grande al mondo di pannelli fotovoltaici. Di fatto tutti destinati all’esportazione. Almeno per ora.
Giuseppe Sarcina


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  1. Erino
    Erino 17 Marzo, 2015, 07:58

    E’ ora che questa gente si svegli, è ora che usino un pò di cervello per bruciare. Bruciare, non significa, accendere un fuoco, lasciarlo andare per i cavoli suoi, significa gestirlo. Ed allora servono persone anche che abbiano la testa sopra il corpo per dire ad altre persone che hanno solo corpo senza testa basta determinate conduzioni di impianti. In questo senso, si produce di più come riscaldamento, sprecando meno energia, come materia prima. Questo per il nostro bene odierno, ed il prossimo per i nostri figli.

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