Il Regno Unito in mille pezzi. Chi (non) vincerà le elezioni

by redazione | 2 Marzo 2015 12:41

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La campagna per le elezioni politiche di maggio in Gran Bretagna è già avviata e il quadro è incerto come non avveniva da decenni. L’economia tira, ma il disagio in una società sempre più diseguale si fa sentire. Alla voce dei conservatori di David Cameron e dei laburisti di Ed Miliband — con la coda liberaldemocratica di Nick Clegg — si aggiungono quelle dei portatori di istanze nuove: gli antieuropeisti dell’Ukip (Uk Independence Party), i Verdi, gli indipendentisti scozzesi dello Snp (Scottish National Party), potrebbero condizionare l’esito del voto ma sono fortemente penalizzati dal sistema elettorale, che impedisce una rappresentanza efficace dei partiti minori.
La dinamica dei collegi uninominali distorce il rapporto fra il numero dei voti e dei seggi e privilegia le formazioni con un forte radicamento locale rispetto a quelle presenti in maniera diffusa sul territorio nazionale. Un partito radicato come il liberal-democratico di Nick Clegg potrà mantenere buona parte dei suoi parlamentari nonostante un probabile calo di voti. All’opposto, partiti dal consenso diffuso come l’Ukip di Nigel Farage e i Verdi, potranno vedere il loro successo elettorale tradursi in un numero irrisorio di seggi. Conservatori e laburisti sono testa a testa e nessuno, neanche fra i più schierati, si azzarda ad andare oltre. La vittoria dipenderà dalla complessa alchimia nella distribuzione territoriale dei seggi, che potrebbe non coincidere con l’esito del voto: il partito che ne avesse ottenuti di più potrebbe trovarsi in minoranza ai Comuni.
Peter Kellner, sondaggista principe di YouGov, mette in guardia da facili pronostici: sono troppe le variabili intorno ai temi chiave dell’andamento dell’economia, dell’immigrazione e dell’Europa. Senza contare che da qui a maggio nuove priorità — ad esempio sulla sicurezza e il terrorismo — potrebbero influire sull’esito. David Cameron è incalzato da destra da una fronda antieuropeista che vorrebbe schiacciare il partito su posizioni oltranziste. Ha un bel dire che il tema su cui si gioca la partita non è l’Europa ma l’economia, per la quale può giustamente vantare successi, e cercare di mantenere al dibattito sull’immigrazione un minimo di razionalità. L’Europa è diventata la metafora di una insoddisfazione generale: a parole tutti, dall’ arci-euroscettico Bill Cash agli alfieri dell’europeismo come Damian Green, dichiarano il loro appoggio, ma non è difficile veder balenare dietro le manifestazioni di fedeltà la lama di più di un pugnale. Una sconfitta di Cameron non farebbe scorrere troppe lacrime: personaggi come il popolare sindaco di Londra, Boris Johnson, sono pronti a commemorarne le spoglie e a contendere all’Ukip la bandiera del rifiuto dell’Europa. Ed Miliband ha pochi ammiratori fra i suoi stessi elettori, molti dei quali gli rimproverano il «tradimento» nei confronti del fratello David, superato sul filo di lana nella corsa alla guida del partito. Il tentativo di recuperare uno spazio politico a sinistra si scontra con la reazione della destra blairiana, decisa ad impedire qualsiasi cedimento verso posizioni massimaliste.
È una disputa che riporta alla storia antica del partito, ma non è per questo meno pericolosa per il suo leader. Peter Mandelson affetta distacco dall’alto della Camera dei Lord per le vicende elettorali, ma non dimentica il ruolo di machiavellico tessitore di trame di potere; è il riferimento discreto di quanti condiscono l’appoggio di rito alla campagna del leader con un malcelato fastidio per una linea giudicata suicida.
A meno di un miracolo che non pare alle viste, la sommatoria di queste due debolezze non produrrà una maggioranza assoluta nel prossimo Parlamento. La formula dei governi di coalizione o minoritari, vista a lungo come una anomalia transitoria in un sistema bipolare, sembra destinata a ripetersi. Nel prossimo Parlamento un governo di coalizione potrebbe tuttavia trovarsi confrontato con un quadro politico molto più frammentato e rissoso: il ritorno anticipato alle urne entro un paio d’anni potrebbe divenire così inevitabile, aprendo una inedita fase di instabilità politica.
La moltiplicazione dei partiti rispecchia l’evoluzione in atto di una società che si è fatta più complessa (verrebbe da dire, più «europea») e stenta a riconoscersi nella rigidità di meccanismi concepiti per un assetto maggioritario. Collegi nominali piccoli, omogenei e dal voto concentrato, sono stati visti come una garanzia di stabilità, e così è stato finché il sistema è stato bipolare, ma oggi sono di ostacolo al cambiamento. La concentrazione geografica del voto rende sempre più difficile l’alternanza, con il risultato che i partiti politici stanno perdendo la funzione essenziale di strumenti di rappresentanza politica per l’insieme del Regno Unito. Conservatori e laburisti eleggono i loro parlamentari quasi solo in Inghilterra, i primi nel Sud e nel Sud-Est e i secondi nelle fasce industriali del Centro e del Nord. Liberaldemocratici, Verdi e Ukip sono anch’essi partiti solo «inglesi». Nel resto del paese, lo Snp è egemone in Scozia e in Galles e in Irlanda del Nord raccolgono consensi i partiti locali. Solo a Londra — sempre più «città-Stato» nello Stato — il dibattito fra i partiti segue le linee tradizionali e li vede tutti presenti. La regionalizzazione della rappresentanza segue le altre trasformazioni intervenute nella natura identitaria dei partiti che, fondata storicamente sull’appartenenza di classe ha visto — complice anche la rivoluzione thatcheriana — prima succedervi una logica di appartenenza fondata sul denaro, e ora aggiungersi quella basata sul territorio.
La tendenza alla frammentazione del quadro politico — e la scomposizione in senso regionale della Gran Bretagna — prefigurano scenari potenzialmente dirompenti. Tenere un quinto e forse più dell’elettorato stabilmente privo di rappresentanza sarà sempre più difficile: la stessa opinione pubblica che un paio d’anni fa ha respinto il tentativo di introdurre elementi di maggior proporzionalità nel sistema elettorale, non potrà non porsi il problema di un diverso rapporto fra rappresentanza ed efficacia. Il referendum scozzese ha innescato un processo il cui esito è destinato in ogni caso ad incidere sugli equilibri costituzionali del Paese. Un altro referendum nel 2017 potrebbe sancire l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. In una eventualità del genere, la disarticolazione territoriale dei partiti potrebbe amplificare l’effetto dei referendum, contribuendo alla dissoluzione di fatto del Regno Unito in una o più componenti sostanzialmente, anche se non formalmente indipendenti.
La politica inglese ha tempi lunghi, come annota lo storico Donald Sassoon. È presto per dire se il sistema elettorale resterà lo stesso, evolverà in senso proporzionale, verso una edizione in salsa britannica del «Mattarellum», riesumando idee gladstoniane di collegi a rappresentanza multipla, o altro. Così come è presto per dire se, e come, il Paese riuscirà a fare i conti con ipotesi federali sostanzialmente estranee alla sua tradizione. L’impianto politico ed istituzionale potrebbe essere alla vigilia di mutamenti radicali ma gli inglesi — che non amano le rivoluzioni — rifuggono da schemi astratti: tendono ad adattare quando serva le istituzioni alla realtà, anziché costruire modelli per uniformare la realtà alle istituzioni.
Antonio Armellini
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