In settantamila a Tunisi la grande marcia contro il terrorismo “Non ci sconfiggeranno”

In settantamila a Tunisi la grande marcia contro il terrorismo “Non ci sconfiggeranno”

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TUNISI. QUANDO si vuol mostrare di non aver paura si portano i bambini alla manifestazione. I tunisini hanno portato i bambini. Il loro cartello prediletto è: «Questa estate io faccio le vacanze in Tunisia». Benché il turismo sia qui una risorsa decisiva, è un’idea poetica. Tutti paragoneranno la manifestazione di oggi a Tunisi a quella di Parigi: io no. È grande e bella, non ne ha bisogno. I confronti si portano poi dietro domande inutilmente facili (perché le agenzie di viaggio non hanno cancellato Parigi, e le crociere internazionali hanno cancellato Tunisi? E l’altro ieri la Federazione internazionale di tennis ha cancellato gli Open di Tunisi di aprile!) C’è tanta gente: 70 mila, secondo la polizia (la polizia, dicono qui, oggi è dei nostri). In questi giorni Tunisi si è riempita di pioggia di vento e di cortei del Social Forum. Là e qui ragazze e donne danno il tono: «Essere donna vuol dire vivere in uno stato di guerra». Oggi il vasto viale è rosso di bandiere tunisine. Alla fine, caduta la tensione, saranno sventolate dalle auto come per una vittoria calcistica. La Tunisia di calcio ha appena perduto col Giappone, ma il patriottismo si è spostato: come nell’inno nazionale cantato dai parlamentari in un sottoscala durante l’attentato, e ricantato oggi dalla folla. Non è la Marsigliese, ma dice, come tutti gli inni, «moriamo, purché viva la nazione». Sono morti anche 3 giapponesi, nell’internazionalismo inerme del museo del Bardo. Nel corteo una signora in carrozzina, un’aria fragile e formidabile, ha un cartello scritto a mano: «Non ci fate paura, ci troverete sempre al nostro posto». Me ne sento protetto. A proteggere tutti c’è uno spiegamento enorme, carri armati, terrazze di cecchini: e anche qui — «come a Parigi», direi, se non avessi rinunciato — inedita familiarità fra la gente e i poliziotti. Alla fine perfino le truppe speciali, una fessurina per gli occhi nel nero delle uniformi, accolgono pazientemente le famiglie colorate per la foto. La gente a Tunisi è cordiale, tanto più coi giovani del Social Forum che sono venuti lo stesso – il Forum ha perso la spinta propulsiva, ma resta una gran festa di ragazzi — e con i giornalisti stranieri, il cui spiegamento è imponente anche lui.
Mentre la manifestazione dilaga davanti al museo, all’interno l’organizzazione che si era voluta ferrea scivola in una confusione clamorosa di governanti sfuggiti ai loro pastori e viceversa. Ma la commozione ha avuto il tempo di imporsi, con le salmodie di cantori sufi sul fondale del gran mosaico della strage. Nel bailamme che monta mi infilo nelle sale, la cui bellezza, guardata di corsa e quasi clandestinamente, è soverchiante. Cerco invano il ritratto di Virgilio. Però, quando i cortei di berline hanno portato via le autorità, il direttore Moncef Ben Moussa, 50 anni, gran tipo che studiò in Italia, ci fa vedere tutto: anche i buchi delle raffiche. Li lasceremo, dice, un museo è il luogo della memoria, e la bellezza antica e il lutto recente si combinano in un modo struggente. Il rotolo che Virgilio (se è lui, ma oggi decidiamo senz’altro che sia lui) tiene sulle ginocchia, recita dall’Eneide: «Musa, mihi causas memora, quo numine laeso…» — ricordami le cause, Musa. Il museo riapre al pubblico lunedì — «il giorno in cui i musei sono chiusi, anche questo è un segnale». Com’è vicina Sousse, e Cartagine, e Tunisi. L’Europa dovrebbe ancora sapersi immaginare come la vicina sconfitta di una Cartagine vittoriosa. Dovrebbe saper immaginare una Tunisia che entri in Europa, e almeno un’Europa che entri in Tunisia. Quest’estate, le vacanze… Sono passati undici giorni dalla strage. Le autorità hanno voluto preparare la prova. In undici giorni di questi, quando si gioca d’azzardo con la carta geografica in mezzo mondo e nell’altra metà un secondo pilota si procura il suo inferno, le cose vacillano. La signora Merkel non c’è: un’agenda troppo piena di lutti. C’è Hollande, e il presidente Caïd Essebsi, 88 anni, lo ringrazia chiamandolo «François Mitterrand », scherzi della nostalgia — una punta l’avrà provata anche lui, Hollande. Matteo Renzi sa dire le parole giuste, e ha imparato a scansarsi quando si sgomita per formare il cordone dei grandi capi: ha più tempo di loro. «Siamo qui accanto alle autorità tunisine per dire che non la daremo vinta ai terroristi», dice.
Sabato il governo tunisino ha compiuto due operazioni. Ha ucciso 9 terroristi in uno scontro a Gafsa, nel sud, e fra loro l’algerino Khaled Chaib, alias Lokman Abou Sakher, il terzo attentatore e capo di una cellula micidiale. Alla vigilia della manifestazione: dunque il governo sapeva che cosa fare. Dopo la rivoluzione, il governo islamista di Ennahda seguì con l’estremismo jihadista un atteggiamento simile al “quieto vivere” che i governi italiani tenevano con la mafia. Oggi Ennahda c’è, e perciò l’opposizione di sinistra ha voluto disertare la manifestazione, a differenza dal sindacato: peccato. Il governo laico del partito Nidaa Tunes — nel quale Ennahda sconfitta alle elezioni ha un ministro — vuole mostrarsi risoluto. Un altro episodio è avvenuto sabato: la moschea più antica e nobile di Tunisi, Ez-Zitouna, è stata sgomberata da Houcine Laabidi, predicatore di odio e violenza. Condannato, Laabidi vi resisteva coi suoi adepti, chiudendo al mondo quel tesoro di storia.
Gran bella manifestazione: come a Parigi. Avrà fatto venire ai ragazzi la voglia di cercare un senso qui, nel museo coi mosaici più belli e i buchi nei muri? C’è un amorino — è nudo, ha le ali: un colpo di kalashnikov l’ha decapitato.


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