Quei vendicatori della Grande Russia che riaprono la stagione del terrore

Quei vendicatori della Grande Russia che riaprono la stagione del terrore

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L’OMICIDIO di Boris Nemtsov spaventa soprattutto perché la vittima non spaventava nessuno. A detta di Dmitri Peskov, il portavoce del presidente russo, «Nemtsov non costituiva una minaccia per l’attuale governo russo né per Vladimir Putin». Questa affermazione suona sinistramente analoga ai commenti di Putin sull’omicidio della giornalista Anna Politkovskaya nel 2006. Mr. Peskov ha lasciato intendere con quella frase che l’omicidio dell’ex primo ministro venerdì sera, nel centro di Mosca, non è imputabile al Cremlino.
Con tutta probabilità davvero nessuno al Cremlino è il mandante dell’agguato — e questo è in parte il motivo per cui l’omicidio di Nemtsov segna l’inizio dell’ennesimo periodo di terrore nella storia russa. Da qualche tempo il Cremlino ha creato un esercito di cani sciolti desiderosi di vendetta che agiscono senza ricevere istruzioni esplicite, convinti di fare l’interesse del Paese. Benché privo di peso politico, Nemtsov era un primo bersaglio logico di questa forza minacciosa.
La Russia è un paese in guerra — da un anno combatte come l’Ucraina — e come tale ha concentrato gran parte della sua retorica sull’opposizione interna. Il termine “opposizione” in sé è fuorviante: implica un accesso ai media e ai meccanismi elettorali e sociali che in Russia hanno cessato di esistere. O meglio, in Russia alcuni individui sono in grado di radunare piccoli gruppi di sostenitori, di esercitare un’azione limitata sull’elettorato locale trasmettendo messaggi attraverso il poco che resta dei media indipendenti e organizzando di tanto in tanto manifestazioni di protesta.
Nel piccolo spazio su cui l’opposizione russa può contare, Nemtsov aveva una posizione particolarissima. Era entrato in politica ai tempi della perestrojka, e nel 1991, a 32 anni, fu nominato dal presidente Boris Eltsin a governatore dell’importante regione industriale di Nizhny Novgorod Oblast, sul Volga. Nemtsov fu tra i più giovani protagonisti della politica degli anni Novanta e pareva incarnare la nuova era: non proveniva dalla nomenklatura del partito comunista, era fautore entusiasta della riforma politica e economica e il suo patronimico ne indicava l’origine ebraica che Nemtsov, rompendo con la tradizione dell’era sovietica, non cercò mai di nascondere. Nel 1997, Eltsin gli chiese di entrare nel governo di Mosca e girava voce che Nemtsov fosse destinato a succedergli alla presidenza.
Ma il presidente russo, malato, si dimostrò incapace sia di cedere il potere che di governare il Paese. Sceglieva in fretta potenziali successori per poi sbarazzarsene con altrettanta rapidità, finendo per allontanare chiunque fosse dotato di un capitale politico. Nel 1999, Eltsin infine decise per un ex agente del Kgb di nome Vladimir Putin, avviando Nemtsov, suo primo delfino, sul terreno dell’opposizione.
Non fu un percorso facile e diretto per Nemtsov. Dapprima tentò di fare politica guidando un partito che entrò nel primo parlamento dell’era Putin e mise addirittura in campo un candidato alla presidenza. Ma, con la svolta autoritaria di Putin, Nemtsov fu costretto ad abbandonare la politica elettorale (o quantomeno spacciata per tale) diventando uno dei primi membri dell’establishment politico a lanciare l’allarme sulla deriva del regime di Putin.
Per anni nessuno si interessò al messaggio di Nemtsov. Davanti alle stazioni della metropolitana di Mosca assieme a un piccolo gruppo di sostenitori distribuiva volantini in cui denunciava l’altissimo livello di corruzione. Il linguaggio era ampolloso, ricordava la propaganda dell’era sovietica e i russi, dall’alto del loro buon tenore di vita, non parevano interessati alle critiche al governo. Si sensibilizzarono più tardi al tema della corruzione seguendo piuttosto il blogger Aleksei Navalnjy, di vent’anni più giovane di Nemtsov, che aveva un approccio più adatto ai tempi.
Allo scoppio della protesta in Russia nel dicembre 2011 Nemtsov si rese conto di essere considerato ormai superato. Il 6 maggio 2012, a seguito della repressione violenta da parte della polizia di una protesta legale e pacifica Nemtsov inscenò un sit-in improvvisato ai piedi del Ponte di Pietra davanti al Cremlino assieme a un gruppo di ragazzi che potevano essere suoi figli. Le proteste andarono affievolendosi, ma Nemtsov non si arrese. Era il principale organizzatore di una manifestazione programmata per ieri a Mosca che, dopo il suo omicidio, è stata trasformata nella veglia in sua memoria.
È pur vero che l’attività di Nemtsov non costituiva una minaccia per il potere di Putin, ma il suo nome appariva lo stesso in tutte le liste dei “nemici della Russia” fatte circolare sul web dai sostenitori del Cremlino. Nei quasi tre anni trascorsi dal ritorno di Putin alla presidenza e soprattutto da quando la Russia ha annesso la Crimea, il Cremlino si è sempre più concentrato sul nemico interno. Due settimane fa il movimento anti-Majdan ha manifestato a Mosca esortando alla violenza contro la “quinta colonna” e su almeno uno striscione Nemstov era indicato come fautore della rivoluzione ucraina.
A neppure una settimana da quella manifestazione e pochi giorni prima della marcia di cui era organizzatore, Nemtsov è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco sul ponte proprio di fronte al Cremlino, costantemente controllato da polizia e telecamere. Il messaggio è chiaro: si verrà ammazzati nel nome del Cremlino, in bella vista del Cremlino, sullo sfondo del Cremlino, solo per aver osato opporsi al Cremlino.
© 2-015 The New York Times ( Traduzione di Emilia Benghi)


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