Ankara mette il bavaglio ai social network

Ankara mette il bavaglio ai social network

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 ISTANBUL Le autorità turche sono riuscite a piegare in poche ore i giganti mondiali dei social network, prima Facebook e poi Twitter, ai quali ieri è stato concesso di riprendere a funzionare soltanto dopo aver eliminato le immagini del sequestro del procuratore Mehmet Selim Kiraz in balia dei brigatisti del Dhkp-C (Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo), di marca marxista-leninista. Immagini disturbanti, certo, ma non più di quelle degli ostaggi dell’Isis diffuse dai media di tutto il mondo. In serata l’ultimatum è stato esteso a Google che aveva tempo fino all’1 e 30 locali per rimuovere le foto.
Con l’offensiva del governo contro i social media si è conclusa in Turchia una settimana pesante, iniziata martedì scorso con l’assalto al palazzo di giustizia di Istanbul, il sequestro e l’uccisione del giudice che indagava sulla morte del 15enne Berkin Elvan, colpito da un candelotto della polizia, nel 2013 a Gezi Park. Proprio nelle stesse ore, un tuttora inspiegato guasto simultaneo ad almeno tre centrali elettriche, indipendenti fra loro, aveva lasciato senza corrente quasi tutto il Paese, agevolando forse il passaggio delle armi attraverso il metal detector del tribunale.
Mercoledì un altro uomo armato si è introdotto nella sede del partito di governo, l’Akp, sempre a Istanbul; e, poco dopo, due kamikaze hanno attaccato la questura centrale: uno è stato arrestato, l’altra è stata uccisa. Sabato sera, infine, il pullman dei giocatori del Fenerbahce, reduce da una partita (vinta per 5 a 1) con la squadra del Caykur Rizespor, sul Mar Nero, è stato centrato da alcune fucilate che hanno ferito l’autista del club e imposto uno stop di sette giorni ai tornei: i calciatori minacciano di non tornare in campo finché non saranno stati identificati i responsabili.
Ieri l’aut-aut della Corte di Ankara alle reti sociali: via le immagini del giudice assassinato o l’oscuramento a tempo indefinito. Facebook ha ceduto per primo, seguito da Twitter, che però è rimasto comunque fuori servizio fino a tarda sera, quando l’uccellino è tornato a cinguettare, censurato sì, ma più impertinente di prima. Resiste YouTube, colpito dal medesimo anatema giudiziario e dal conseguente provvedimento dell’Autorità amministrativa delle telecomunicazioni, che ha bloccato l’accesso anche ad altri 160 siti «colpevoli».
E sono stati ancora fortunati: per aver diffuso la foto proibita del giudice Kiraz con la pistola alla tempia, poche ore prima di essere ucciso con i suoi sequestratori nel blitz dei reparti speciali per liberarlo, sette giornali turchi rischiano adesso condanne per propaganda e favoreggiamento dei terroristi. Altri tredici, tra agenzie, quotidiani e canali televisivi, si erano visti ritirare per la stessa ragione gli accrediti necessari ad assistere ai funerali del procuratore, mercoledì scorso, dietro intervento diretto del primo ministro, Ahmet Davuto?lu.
La mano dura del presidente Recep Tayyip Erdogan si fa sentire a due mesi esatti dalle elezioni politiche nelle quali il suo partito, l’islamista e conservatore Akp, è dato in netto calo di consensi (dal 50% al 39%), mettendo a serio rischio i suoi disegni: cambiare la Costituzione e trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale. Per realizzarli, Erdogan ha bisogno di una maggioranza assoluta. Per ottenerla, deve dimostrare di essere il garante della stabilità. Così venerdì ha firmato una legge (invano contrastata dall’opposizione) che prevede tra l’altro più poteri alla polizia con il fermo extragiudiziale di 48 ore. E il carcere fino a 4 anni per chi si porta anche solo una fionda in manifestazione.
Elisabetta Rosaspina


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