Calais, il ghetto dove il governo francese ha rinchiuso i migranti

by redazione | 28 Aprile 2015 9:43

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«Ma lo sai che qui è pieno di ita­liani?» La domanda di She­rif, un afghano sulla ses­san­tina che parla un ottimo spa­gnolo, mi sor­prende. Siamo a Calais, la città por­tuale a 30 km dall’Inghilterra che ormai la stampa ita­liana defi­ni­sce come la Lam­pe­dusa fran­cese. In che senso, She­rif? Dove sono gli ita­liani? La mag­gior parte degli afghani e dei paki­stani che si tro­vano a Calais per pro­vare a rag­giun­gere l’Inghilterra par­lano per­fet­ta­mente l’italiano, hanno vis­suto nel nostro paese anche per tre-quattro anni e pos­seg­gono il per­messo di sog­giorno per pro­te­zione sus­si­dia­ria, da rin­no­vare ogni cin­que anni. Ma allora che ci fate a Calais se avete già i docu­menti in Ita­lia? Abdul e Mah­mud, tren­tenni che non desi­de­rano altro se non lavo­rare dopo anni di sof­fe­renze discu­tono con noi a lungo. Sono sicuri che se gli ita­liani fos­sero a cono­scenza dei loro pro­blemi fareb­bero qual­cosa per aiu­tarli. L’Italia gli piace. Vor­reb­bero viverci e lavo­rarci. Ma non c’è più lavoro. Sono stati tra i primi a per­dere il posto e dal 2012 si regi­stra un vero e pro­prio esodo di afghani ita­liani verso Inghil­terra, Fran­cia e nord Europa. Ma il loro per­messo di sog­giorno non per­mette di lavo­rare al di fuori dell’Italia.

La situa­zione a Calais è stata molto tesa negli ultimi giorni. Men­tre si avvi­ci­nava la Pasqua oltre 2000 dispe­rati che fug­gono da guerre, ingiu­sti­zia e povertà sono stati vit­time di una bru­tale offen­siva della poli­zia e dello Stato fran­cese che li ha con­cen­trati in un campo in un set­tore peri­fe­rico e palu­doso della zona indu­striale presso il cen­tro d’accoglienza diurno Jules Ferry. I campi dove vive­vano fino a poco fa suda­nesi, etiopi, eri­trei, afghani, paki­stani, ira­niani ed egi­ziani (Tio­xide, Lea­der­price e Gallo), sono diven­tati una distesa di rifiuti. Quello che resta è deso­lante. L’atmosfera è spet­trale. Oggetti di vita quo­ti­diana sparsi si mesco­lano ai nume­rosi falò ed al silen­zio. La poli­zia li ha infor­mati dell’espulsione il giorno prima, anche se le auto­rità ne par­la­vano già da feb­braio. In Fran­cia un’ordinanza d’espulsione dev’essere noti­fi­cata da un usciere giu­di­zia­rio pre­via denun­cia del pro­prie­ta­rio. Ma evi­den­te­mente quando si tratta di migranti la legge non è uguale per tutti. È bastato inviare qual­che poli­ziotto ad inti­mi­dirli e cac­ciarli. Da que­sto fine set­ti­mana tutti coloro che desi­de­rano rag­giun­gere l’Inghilterra da Calais vivono in quest’area enorme e lon­tana dall’abitato dove man­cano ser­vizi igie­nici ed acqua. Dalle 14 alle 17 pos­sono recarsi al cen­tro Jules Ferry per sor­seg­giare un tè o un caffè, ci spiega Dina, una gio­vane ragazza del posto che lavora qui. Oppure pos­sono essere accom­pa­gnati da un medico, usare i ser­vizi igie­nici e rica­ri­care i tele­foni cel­lu­lari. Dalle 17 alle 19 è il momento della distri­bu­zione dell’unico pasto a cui hanno diritto. Pre­sto saranno attive anche 70 docce. Inol­tre un pic­colo pre­fab­bri­cato dalla capa­cità di cento posti acco­glie le donne ed i bam­bini in situa­zione di dif­fi­coltà che lo desi­de­rano. Qua­ranta dipen­denti dell’associazione «La vie active» si alter­nano nel cen­tro durante gli orari di aper­tura. Otto di loro sono edu­ca­tori sociali, gli altri non hanno una for­ma­zione spe­ci­fica legata all’accoglienza o alla media­zione. Rica­pi­to­lando, per il momento un migrante a Calais, con­fi­nato nei pressi del cen­tro Jules Ferry, ha diritto ad un pasto al giorno, accesso ai ser­vizi igie­nici per tre ore e fra qual­che giorno anche ad una doccia.

Intanto è enco­mia­bile il lavoro delle nume­ro­sis­sime asso­cia­zioni e dei pri­vati cit­ta­dini che sono al fianco dei migranti per soste­nerli in que­sto enne­simo momento dif­fi­cile. Natha­lie, una donna qua­ran­tenne di Calais, ha por­tato il figlio di 7 anni a pas­sare la dome­nica di Pasqua tra i suda­nesi per aiu­tarli a costruire la loro nuova casa. Emmaus, Secours Catho­li­que Cari­tas e Calais, Ouver­ture et Huma­nité sono solo alcune delle prin­ci­pali realtà che in que­sti giorni stanno aiu­tando i migranti a tra­slo­care e a costruire nuovi ripari in un ter­reno sab­bioso dav­vero inde­gno. Pierre ed una decina di volon­tari di Emmaus sono venuti da Reims per pas­sare la gior­nata di Pasqua a costruire almeno quat­tro barac­che con inte­la­ia­tura in legno e coperte di sem­plici teloni di pla­stica per pro­teg­gersi dal freddo e dalla pioggia.

Mafioso, mafioso! Safir, egi­ziano sulla cin­quan­tina, mi rac­conta che è stato vit­tima di un impren­di­tore ita­liano con forti legami con la mafia e che sfrutta soprat­tutto gli egi­ziani sot­to­pa­gan­doli nel set­tore della logi­stica. In que­sto momento l’imprenditore è sotto inda­gine a Parigi.
Sayes, tren­tenne etiope, mi viene incon­tro gio­ioso. Dopo i riti dei saluti gli chiedo se pos­siamo fare qual­cosa per lui. Mi chiede una Bib­bia in inglese. Nient’altro. Mal­grado le dif­fi­coltà e la fatica, la fede resta l’unica forza e l’unica cer­tezza di que­sti uomini e di que­ste donne. Nono­stante molte capanne siano ancora in costru­zione, tre moschee con una capienza di una tren­tina di fedeli ed una chiesa orto­dossa sono già state ulti­mate. È stato il loro primo pensiero.

I bam­bini di Asmara

Bam­bino, bam­bino! Elia e David hanno 12 e 15 anni. Gli altri eri­trei con cui vivono li pren­dono in giro chia­man­doli bam­bini. Ven­gono quasi tutti dalla capi­tale Asmara. Per loro l’ottenimento dell’asilo è quasi auto­ma­tico in qua­lun­que paese euro­peo. Il regime dit­ta­to­riale di Afewerki, al potere dal 1993, obbliga uomini e donne ad un ser­vi­zio mili­tare semi­per­ma­nente, non accetta par­titi d’opposizione né la stampa libera e indi­pen­dente. Elia, David, Daniel e gli altri hanno scelto di andare in Inghil­terra per­ché par­lano benis­simo l’inglese e gli è stato detto che lì la vita è migliore. Salu­tiamo Daniel, qua­ran­tenne eri­treo spo­sato con tre figli che non sente da un anno per­ché nel suo vil­lag­gio non è ancora arri­vata la linea tele­fo­nica e non sa come comu­ni­care con la fami­glia. Mi dice che la pros­sima volta che ci incon­tre­remo sarà al ter­mine del regime in un bar ad Asmara.
Dopo anni di pro­te­ste, pro­vo­ca­zioni e popu­li­smo il sin­daco ed il mini­stro Caza­neuve hanno otte­nuto quello che vole­vano. Gli oltre 2000 migranti che da Calais pro­vano a rag­giun­gere l’Inghilterra vivono ghet­tiz­zati oltre la zona indu­striale. Qui non daranno più fasti­dio a nes­suno. Final­mente i turi­sti inglesi in vacanza potranno godersi tran­quilli la città e le spiagge. Con grande lun­gi­mi­ranza si è deciso di tor­nare alla situa­zione del 2002, quando le cen­ti­naia di migranti di allora erano con­fi­nati in un pae­sino ad ovest di Calais, a Sangatte.

Lasciando Calais ci ven­gono in mente le parole di papa Fran­ce­sco per la scorsa gior­nata della pace: «La glo­ba­liz­za­zione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fra­telli, chiede a tutti noi di farci arte­fici di una glo­ba­liz­za­zione della soli­da­rietà e della fra­ter­nità. Le pos­si­bi­lità di soli­da­rietà verso que­sti migranti sono nume­rose: andare sul posto ed aiu­tare a costruire le barac­che, inviare doni e denaro alle asso­cia­zioni che ope­rano sul posto, fare pres­sione sui nostri gover­nanti per arri­vare a leggi sulle migra­zioni più eque. Insomma, non dimen­ti­care di restare umani.

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