Everest. L’onda che ha cancellato tutto

by redazione | 27 Aprile 2015 9:03

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Una spaventosa eruzione, un’esplosione apocalittica: si fa fatica a descrivere la rovina che si è abbattuta sul campo base dell’Everest. La montagna-mito, l’emblema della potenza e della stabilità, il tetto del mondo, è stato violentemente squassato dall’onda d’urto del terremoto. Si è scrollato dei suoi ghiacci e delle rocce sospese alle sue pareti, che sono precipitati in una nuvola rovinosa.
Dopo il boato, gli alpinisti l’hanno vista crescere quella nuvola con la lentezza spaventosamente distruttiva delle valanghe. Alcuni secondi e occupava l’intero bacino alla base dell’Ice Fall. Il ghiaccio esplodeva in migliaia di frammenti, le rocce venivano proiettate nel vuoto, la neve si gonfiava in un pulviscolo livido, che si dilatava con minacciosa plasticità e ricadeva con il carico dei suoi invisibili proiettili. È arrivata una violenta ventata anticipatrice, poi si è abbattuta la scarica di detriti, che ha seppellito i gusci colorati degli alpinisti.
Tutti i parametri sono saltati. C’è solo dismisura e orrore nel monarca della «dimora delle nevi» che, scosso come uno straccio, vacilla e si libera quasi fosse polvere delle sue croste più fragili. E il luna park himalayano dell’estremo è precipitato nella tragedia. Volevano misurarsi con il gigante, gli alpinisti che attendevano nella città di nylon del base, affollato come sempre accade nell’alta stagione premonsonica.
Erano attratti dalla sfida più clamorosa, dai ghiacci, dai venti tempestosi, dall’aria rarefatta della zona della morte. E invece hanno scoperto che quella montagna di 8.848 metri era solo la capocchia di uno spillo. Sotto si agitavano forze ancora più possenti e loro, come noi, non se ne erano accorti, anche se c’erano seduti sopra. Quelle forze le conoscevano bene invece le montagne più alte del mondo, perché da esse nacquero milioni di anni fa e perché il loro lavorio segreto un poco ogni giorno le ricaccia verso gli altipiani tibetani e le corruga, innalzandole di alcuni centimetri all’anno.
L’estetica del sublime, che tenne a battesimo la scoperta settecentesca delle montagne, ha celebrato l’estrema fra le sue epifanie.
La ventina di persone seppellite dalla valanga del campo base dell’Everest sono soltanto una goccia nella tragica ondata del terremoto che ha investito il Nepal. Eppure quegli scalatori, che erano saliti fino lassù per tentare la vetta più alta del pianeta e sono stati spazzati, non da una normale valanga, che rientra fra i rischi dell’alpinismo, ma da una valanga scatenata da un terremoto, ci mostrano quale distanza separi la hybris dell’uomo dalla potenza della natura. C’è qualcosa di crudelmente surreale in questa tragedia. E, quel che è peggio, ci tocca riconoscere che ciò che a noi appare mostruoso, per la natura è ordinaria amministrazione.
Viene in mente la beffarda apparizione della Natura all’islandese nell’Operetta morale leopardiana. Anche lui, come gli alpinisti che volevano scalare l’Everest, l’aveva inseguita per tutta la vita e alla fine se l’era ritrovata davanti con il suo volto terrifico, ma due leoni affamati avevano interrotto la conversazione.
Le oscure energie della Terra ci rammentano un limite, di cui ci dimentichiamo troppo spesso, ma insieme ci umiliano, ricordandoci quanto il caso pesi sulle nostre vite.
Franco Brevini
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