I droni armati che mancano all’Italia «Impossibile averli prima di un anno»

by redazione | 23 Aprile 2015 9:11

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ROMA L’ipotesi di usare i droni per colpire e affondare i barconi dei trafficanti di esseri umani, prima che partano dalle coste nordafricane, è solo una chiacchiera inutile e illusoria. Non solo e non tanto perché in questo momento all’Italia (come a quasi tutti i grandi Paesi dell’Ue, con l’eccezione del Regno Unito) manca la tecnologia necessaria per armare i 6 Predator B, anche detti Reaper, a disposizione delle nostre Forze Armate. Quanto perché, anche nell’ipotesi impossibile che gli Usa ci dessero domani il know-how per renderli letali, «occorrerebbero da 6 mesi a un anno per applicarlo e avere un embrione di capacità operativa».
Lo dicono al Corriere autorevoli fonti militari, basite di fronte a tanto sproloquio nella concitata conversazione politica e mediatica, seguita al terribile naufragio di domenica. Prima di spiegare in dettaglio le ragioni dell’impraticabilità dell’impiego dei droni, le fonti ricordano che l’unica opzione possibile contro i barconi sarebbe di tenersi e affondare quelli da dove sbarcano gli immigrati, natanti che invece vengono normalmente restituiti. Non è molto ma sarebbe già qualcosa, se si pensa che nel solo 2014, dati del ministero della Difesa, i mercanti di anime sono rientrati in possesso di ben 800 tra grosse scialuppe, gommoni e pescherecci.
Certo potrebbero esser presi in considerazione altri modi per eliminare gli scafi della morte. «Ma è difficile — spiegano i nostri interlocutori — immaginare bombardamenti aerei, sia per la difficoltà di identificare gli obiettivi, sia per il rischio che i migranti possano essere usati come scudi umani. Tantomeno è realistico pensare a operazioni a terra direttamente nei porti, dove avremmo comunque bisogno della collaborazione di autorità locali, che o non ci sono o sono in conflitto fra loro».
Un’altra ipotesi presa in considerazione è l’uso dei sottomarini, impiegati in passato dalla nostra Marina per tracciare le rotte degli immigrati e usati anche nella campagna contro Gheddafi. Teoricamente potrebbero consentire azioni mordi e fuggi di squadre speciali, con il sommergibile in attesa al largo: ma quante missioni sarebbero necessarie e con quali costi, per avere un impatto significativo?
Ma torniamo ai droni, presunto miracoloso toccasana su cui in queste ore si esercitano il colto e l’inclita. L’Italia ne possiede dodici, sei Predator di prima generazione e altrettanti nella versione Reaper, acquistati tra il 2009 e il 2011 e tutti usati per sorveglianza e ricognizione. Tra Afghanistan, Kosovo e normale manutenzione, solo un paio sono operativi in Nord Africa.
Nel 2011 il nostro Paese ha avviato le procedure per ottenere dagli Usa l’autorizzazione (cioè la tecnologia) ad armare i Reaper di missili. La decisione spetta a una Commissione del Senato americano, che non l’ha ancora presa. I nostri governi non hanno insistito più di tanto: non c’erano ragioni di urgenza e c’erano ovviamente problemi di costo.
Ora l’emergenza migranti può spingerci a chiedere e forse ottenere un’accelerazione, che comunque non significherebbe segnale verde immediato: «Avremmo comunque davanti un lavoro lungo e complesso, dall’addestramento tecnico alle prove sperimentali. Non potremmo impiegarli in modo efficace prima di un anno».
Né grande aiuto può venire su questo fronte dagli alleati europei, nessuno dei quali possiede droni armati. Parigi per esempio non potrebbe neppure dare una mano per la ricognizione, visto che i suoi 6 Reaper sono tutti impiegati nel Mali a copertura della missione francese.
Fa eccezione Londra, che però opera con alcuni Reaper armati solo insieme agli americani: improbabile, anzi impossibile che Usa e Gran Bretagna, troppo indaffarati sul fronte Isis e al Qaeda, ci aiutino con i droni ad affondare i barconi degli scafisti.
Paolo Valentino
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