Kenya. Trucidati i ragazzi che non conoscevano i testi del Corano
Sono stati sorpresi nel sonno nel dormitorio dell’università. Oltre 800 studenti, tra loro molte ragazze, sono trasaliti, il silenzio dell’alba rotto da assordanti raffiche di kalashnikov. A impugnarli un commando di shebab con il volto coperto e addosso giubbotti esplosivi che sparavano alla cieca. I miliziani islamici somali hanno seminato il terrore per tutta la giornata nel campus di Garissa, nell’Est del Kenya, a 140 chilometri dal poroso confine con la Somalia. «Mentre dormivamo abbiamo sentito degli spari. Erano circa le cinque di mattina e abbiamo cominciato a correre e scappare per tentare di salvarci» ha raccontato alla Reuters uno dei sopravvissuti.
Nella rivendicazione, diffusa mentre l’assalto era ancora in corso, un portavoce del gruppo terroristico ha riferito che «i mujaheddin prima hanno separato i musulmani dai non musulmani», poi hanno liberato i primi e trattenuto i cristiani in ostaggio. «Infedeli» nel mirino, come era successo a dicembre in una cava di Mandera, o lo scorso giugno a Mpeketoni, vicino all’isola di Lamu, nei rastrellamenti casa per casa dove veniva ucciso chi non sapeva recitare versi del Corano. Lo stesso test del «buon islamico» usato dagli shebab per la prima volta nell’attentato al mall di Nairobi nel settembre 2013. Dopo il blitz delle forze di sicurezza, soltanto in serata è tornata la calma. Pesante il bilancio, il peggiore di sempre per il Kenya: 147 morti. Il doppio che nel Westgate di Nairobi, finora considerato l’attentato più sanguinoso degli shebab nel Paese. Alcuni studenti sono stati barbaramente decapitati, hanno riferito ai media africani alcuni sopravvissuti. «Abbiamo visto corpi senza testa mentre fuggivamo — ha detto sotto choc Winnie Njeri, studentessa messa in salvo dai poliziotti — è terribile, è una carneficina». Decapitati come fa l’Isis, sorpresi nel sonno in un dormitorio come le ragazze di Chibok rapite un anno fa in Nigeria dai Boko Haram, il gruppo già affiliato allo Stato Islamico. «Gli shebab sono divisi tra chi vorrebbe aderire all’Isis e chi è a favore della vecchia alleanza con al Qaeda» dice al Corriere Mario Raffaelli, vicepresidente internazionale della ong Amref, presente a Garissa, da poco tornato dalla Somalia dove sta seguendo il processo di pacificazione per l’Awepa, l’organizzazione dei Parlamenti europei in sostegno ai Parlamenti africani. «Se dovesse prevalere la linea dell’affiliazione allo Stato Islamico, il gruppo diventerebbe molto più pericoloso, perché potrebbe contare su maggiori finanziamenti e supporto militare» mette in guardia. Nella rivendicazione, gli shebab hanno ribadito che «il Kenya è in guerra con la Somalia». Il riferimento è alla partecipazio- ne di Nairobi alla missione mili- tare dell’Unione africana per aiutare Mogadiscio a contrastare i terroristi, intervento che ha ridimensionato il potere della milizia in Somalia. Ma il gruppo, come dimostra questo ultimo massacro, è tutt’altro che piegato, nonostante l’eliminazione di alcuni leader, tra cui il capo Moktar Ali Zubeyr, noto come «Godane», ucciso il settembre scorso, e Adan Garaar, ritenuta la mente dell’attacco al Westgate di Nairobi, colpito a morte da un drone Usa il mese scorso. Anzi l’assalto di ieri potrebbe essere la risposta all’uccisione di Garaar. Dopo la sua morte, l’ambasciata americana aveva lanciato l’allarme su possibili attacchi «in Kenya nel breve termine», ma senza individuare l’area in pericolo. La mente dell’assalto di ieri sarebbe secondo la polizia Mohamed Kuno, fino al 2007 preside di una scuola islamica di Garissa: su di lui pende una taglia di 220 mila dollari. Nel blitz sono rimasti uccisi quattro attentatori, saltati in aria come bombe quando raggiunti dai proiettili degli agenti, un altro è stato arrestato mentre tentava di fuggire. Le operazioni sono durate un giorno intero. Soltanto in serata gli ostaggi sono stati liberati, alle loro spalle una laguna di sangue.
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