La sfida non è l’atomica ma il controllo dello scacchiere iraniano

La sfida non è l’atomica ma il controllo dello scacchiere iraniano

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L’ANNUNCIATA intesa sul nucleare iraniano non è un’intesa sul nucleare iraniano. È molto di più o molto di meno. Grande storia o cronaca effimera. Nel primo caso, sarà ricordata come la breccia che avrà consentito la graduale reintegrazione della Persia — chiamiamo le cose con il loro nome — quale potenza portante di un nuovo equilibrio nella sua area d’influenza imperiale, dal Mediterraneo all’Oceano Indiano, dal Levante all’Asia centrale. Nel secondo, sarà registrata negli annali con una nota a piè di pagina. Per ricordare l’abortito tentativo di un debole presidente americano di dare senso alla sua eredità in politica estera, parallelo al fallito sforzo del regime di Teheran di recuperare parte della sua legittimità minata dall’esclusione, via sanzioni, da fondamentali circuiti finanziari, ener- getici e culturali: peso ormai insopportabile per il Paese più moderno e meno antioccidentale della regione.
La prima ipotesi è la meno probabile e la più auspicabile per noi italiani ed europei. La seconda confermerebbe l’antica regola per cui da qualche secolo quella parte di mondo produce molti più problemi di quanti ne sappia risolvere. Il verdetto sarà emesso dagli storici. Ma già alla fine di questa primavera, quando i negoziatori si ritroveranno in Svizzera per firmare o non firmare il trattato internazionale di cui hanno gettato le basi, ne sapremo di più.
Anzitutto, l’aspetto tecnico. A Losanna si è deciso che l’accordo basato sullo scambio fra rinuncia iraniana all’arma atomica e abolizione delle sanzioni (americane, europee, onusiane) si farà, ma i dettagli dovranno essere definiti entro il 30 giugno. Nessuno ha firmato nulla. Si è solo stabilito che lo si intende fare entro il quadro tracciato insieme, dopo un primo defatigante negoziato fra l’Iran e le sue controparti Usa, Russia, Cina, Germania, Francia e Gran Bretagna. C’è la cornice. Ci sono alcuni princìpi chiave (tra cui spicca la rinuncia della Repubblica Islamica, ma solo per i prossimi quindici anni, ad arricchire uranio oltre il 3,67%, ben al di sotto del grado necessario a produrre la Bomba). C’è la necessità per i contraenti del patto non scritto di salvare la faccia: se a fine giugno saltasse tutto, tutti perderebbero. Poi però si scopre che i parametri dell’accordo resi noti dal Dipartimento di Stato, calibrati per renderli appetibili alla propria opinione pubblica e soprattutto al Congresso che dovrà approvare l’accordo, non sono identici alla versione iraniana. Non è questione di traduzione dall’inglese in farsi, è sostanza. Infatti, era passata appena un’ora dalla pubblicazione del documento Usa che già il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif twittava il suo disappunto per le rivelazioni del collega John Kerry. Ma siamo ottimisti, e consideriamo questa divergenza come parte del negoziato in corso.
Il punto è che l’intesa non è stata raggiunta da effettivi plenipotenziari, come si usava un tempo fra cancellerie. Kerry ha alle spalle Obama, certo. Ma il presidente potrà essere smentito dal Congresso a maggioranza repubblicana, cui spetterà l’ultima parola sulla revoca delle sanzioni — certo non tutte. E se pure il presidente dovesse provvisoriamente scavalcare il suo parlamento a colpi di ordini esecutivi, fra due anni il suo successore potrebbe riportare le lancette dell’orologio all’ora zero. Quanto a Zarif, può contare sull’appoggio del presidente Hassan Rouhani, che pure ha conservato un margine di distanza rispetto al suo capo negoziatore, e persino sul cauto benestare della Guida Suprema, Ali Khamenei. Oltre che sull’entusiasmo con cui tanta gente a Teheran e altrove è scesa in piazza a festeggiare l’annuncio di Losanna, quasi la fine delle sanzioni fosse fatto compiuto. Ma se a giugno Zarif si trovasse di fronte a “dettagli” indigeribili impostigli dai negoziatori europei e americani a causa delle pressioni arabo-saudite e israeliane, o desse l’impressione di aver stipulato un’intesa politica a tutto tondo con l’America, nei palazzi del regime i nemici dell’accordo potrebbero rovesciare il tavolo.
E qui torniamo al punto di fon- do: nella forma e nella tecnica si tratta sul nucleare, nella sostanza il negoziato è geopolitico. La trattativa non sarebbe nemmeno cominciata se, al fondo, occidentali, russi e cinesi non fossero convinti del fatto che la Persia è attore abbastanza razionale da non volersi dotare di testate atomiche, ben sapendo che appena scoperta verrebbe vetrificata da un primo colpo americano e/o israeliano. Trentacinque anni di contrapposizione fra Stati Uniti e Repubblica Islamica, avvelenata dagli stereotipi negativi ed esasperata dalla propaganda, non si possono però cancellare d’un colpo. Serve passare dalla cruna dell’ago nucleare per ricostruire un equilibrio geopolitico regionale oggi inesistente.
Ma sauditi e israeliani non sono disposti a includere la Repubblica Islamica in un accordo di fondo sulla divisione dei poteri nel Grande Medio Oriente. Per i petromonarchi arabi sunniti di Riyad e i loro satelliti del Golfo, i persiani sciiti sono inguaribili sovversivi. Teheran è la centrale della rivoluzione nel mondo islamico, che in ultima analisi nega la legittimità del potere politicoreligioso di Casa Saud. Per gli israeliani, o almeno per Netanyahu e la quasi totalità dell’establishment politico (ma l’intelligence spesso non concorda), la Repubblica Islamica è una minaccia esistenziale permanente. E’ ciò che l’Unione Sovietica fu per gli Stati Uniti durante la guerra fredda. Un fattore di coesione sociale e geopolitica assolutamente strategico. E si sa che cosa succede quando si per- de il Nemico.
Quanto a noi. Non c’è dubbio che per l’Italia la via verso il compromesso fra le tre potenze regionali determinanti nel nostro Sud-Est — cui potremmo aggiungere la Turchia — sia di gran lunga preferibile al caos attuale, dove prosperano i “califfi”, scorrono i veleni dei conflitti settari e si rafforzano le rotte dei traffici clandestini che minacciano la nostra sicurezza, inquinano la nostra economia, infragiliscono la nostra coesione sociale, financo istituzionale. Forse mai come oggi rimpiangiamo l’occasione persa oltre dieci anni fa dal governo Berlusconi, quando rifiutò l’invito iraniano a partecipare ai negoziati per timore di irritare gli americani ( sic). Dobbiamo quindi affidarci ai nostri partner. Nella speranza che nelle loro agende ci sia un piccolo spazio per i nostri interessi. Ne saremmo lietamente sorpresi.


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