L’addio impossibile dell’Italia al nucleare

L’addio impossibile dell’Italia al nucleare

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UNA decisione che l’Italia continua a rinviare da quattordici anni costerà al Paese quasi 5 miliardi di euro in più sulla bolletta dell’energia elettrica. Il deposito nazionale dei rifiuti nucleari che doveva sorgere nel 2009, infatti, in base alle ultime stime ufficiali non sarà realizzato prima del 2025.
E altri rinvii potranno solo aggravare ulteriormente i conti pubblici. L’addio al nucleare che doveva avvenire entro il 2020 e che sarebbe dovuto costare due miliardi e seicento milioni di euro — come scritto nel bilancio del 2001 della Sogin spa, la società dello Stato nata con lo scopo di far sparire le centrali italiane dopo il referendum abrogativo del 1987 — alla fine costerà quasi 7 miliardi di euro, in quanto lo smantellamento delle centrali terminerà non prima del 2035. E a questi costi bisognerà aggiungere altri 3 miliardi e mezzo per la realizzazione del deposito nazionale. In totale quasi 11 miliardi di euro da prelevare dalle tasche degli italiani. E, ad oggi, sono già stati spesi oltre 2 miliardi e mezzo di euro. Quasi un miliardo solo per pagare il personale: un esercito di 960 dipendenti con tanto premio di produzione l’anno di 3,2 milioni di euro.
E intanto il decommissioning , lo smantellamento, si trova in un ritardo colossale. Il risultato raggiunto fino ad oggi, è poco più del 24 per cento, tanto che le isole nucleari — la parte più delicata degli impianti — sono ancora intonse.
I quindici anni di tempo perso, che emergono con tutta evidenza dalle tabelle ufficiali, dipendono proprio dalla mancata localizzazione, progettazione e realizzazione del deposito. Tema incandescente sul piano politico, tanto che ogni governo che si è succeduto dal 2001 in poi ha rimandato la scelta, evitando una decisione di certo impopolare e che però di contro ha contribuito a far lievitare in modo esorbitante i costi di gestione, con impianti fermi a produrre spese gravose di manutenzione. Così, il deposito che doveva essere operativo già nel 2009 — come racconta a pagina 32 il bilancio 2001 della Sogin — ad oggi non è stato nemmeno individuato. L’ultimo slittamento è di pochi giorni fa. I ministeri dell’ambiente e dello sviluppo economico che avrebbero dovuto rendere note le sedi selezionate per ospitare il deposito, hanno rimandato tutto ancora una volta, ma solo per un paio di mesi. Giusto il tempo di effettuare «ulteriori approfondimenti».
Poi, si darà inizio «all’ascolto » dei territori individuati da Sogin e Ispra (l’istituto superiore per la prevenzione e la ricerca ambientale) secondo una serie di criteri di «sicurezza ». Iter che durerà altri quattro anni e mezzo.
E se alla fine un territorio sarà definitivamente scelto, sarà soprattutto conseguenza delle sollecitazioni arrivate da un altro Stato, la Francia, che vuole riconsegnare all’Italia (non oltre il 2025) i rifiuti nucleari ad alta pericolosità mandati oltralpe ormai nel lontano 2006. Rifiuti che sono stati “riprocessati” e che per altro ci sono costati quasi un miliardo di euro (insieme all’altra parte del “riprocessamento” avvenuto in Inghilterra). Di certo, a pagare il conto dei cinque miliardi in più saranno ancora una volta gli italiani, attraverso la bolletta (3 euro l’anno ad utenza). E l’altro paradosso è che nell’eterna attesa, le quattro ex centrali nucleari di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina, Garigliano (Caserta), l’impianto di Bosco Marengo (Alessandria), e le strutture di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera) da 27 anni sono state «congelate », disattivate certo, ma aperte. Con tanto di personale, direttori di sede, servizi di pulizia e perfino la costante manutenzione delle aree verdi intorno agli impianti. Non si sa mai.
E mentre gli anni passano, anche gli sprechi fioccano: come i costi per una sede lussuosa della Sogin a Mosca con rimborsi faraonici per il personale in missione. In totale, quasi 5 milioni di euro sui quali ora è stata avviata una indagine interna ancora in corso. La stessa società è anche sotto inchiesta da parte della procura di Milano per aver affidato un appalto per lo smaltimento dei rifiuti nucleari al gruppo Maltauro, finito poi nel ciclone della prima fase dell’inchiesta su Expo.


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