L’umanità su una zattera

L’umanità su una zattera

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SONO QUASI arrivati, hanno visto morire i loro compagni, il terrore è quel mare che continua a frustarli anche adesso che la riva è lì, a pochi metri. Sono gli uomini nuovi che stanno cambiando non solo la storia ma anche la geografia del Mediterraneo. Molti di loro non avevano mai visto prima il mare. Lo temono. Non sanno nuotare. Basta uno spruzzo a spaventarli. Fra gli scogli della spiaggia di Zephiros, a Rodi, i soccorritori gli urlano di mollare quelle inutili assi di legno in cui s’è frantumato il barcone e di muovere finalmente i pochi passi che mancano per raggiungere la terraferma. Ma la schiuma delle onde li paralizza.
Sono poco più di una dozzina, un paio di loro indossa un giubbotto salvagente ma è come se fossero nudi. Il video sembra restituire l’immagine della “Zattera della Medusa” di Géricault. Nel filmato, confuse dal frangersi delle onde sugli scogli, si sentono le parole di un soccorritore, si vedono le sue mani tese, un gesto di incoraggiamento: «Venite, venite…». Pochi metri ma per quell’umanità un abisso. Si lasciano scivolare di qualche centimetro, si fermano, tornano indietro, puntano disperatamente i piedi su una superficie che non li trattiene e li fa precipitare di nuovo verso l’acqua. Attorno a loro galleggiano pezzi di plastica, una maglietta, inutili salvagenti. Bisogna raccoglierli uno a uno, frantumi anch’essi di un moto d’umanità impossibilitato a fermarsi. La paura ce l’hanno dentro da troppo tempo, da vite intere, perché possa bastare l’incognita visione del mare ad arrestarli. Sono denutriti e disidratati, ma hanno unghie forti. Si aggrappano e non mollano la presa.
Papa Francesco, che riveste l’incarico di parlare a tutti noi dubbiosi, ha sentito il bisogno di precisarlo perché sa che, in cuor nostro, non è affatto scontato: «Sono uomini e donne come noi». Davvero? Quegli scheletri dalla pelle scura che per secoli il senso comune relegava alla condizione di selvaggi, sul bordo del regno animale, saranno i nostri nuovi vicini di casa? Francesco osa di più. Li definisce «nostri fratelli». Cercatori di felicità. A dire il vero quelli che arrivano in Grecia, allargando il fronte dell’esodo da ovest a est, dalla Libia alla Turchia come basi di partenza, hanno più spesso la carnagione olivastra dei mediorientali: da sola la guerra siriana ha prodotto più di quattro milioni di profughi, fra i quali intere famiglie della classe media in grado di gonfiare coi loro risparmi le tasche dei trafficanti. Niente di più ragionevole, per loro, che tentare l’azzardo di una traversata. Se anche le più efficienti flotte militari dell’emisfero nord, schierate a raggiera lungo l’intera sponda meridionale del Mediterraneo, si prefiggessero lo scopo di arrestarne il flusso con un blocco navale, così moltiplicando il numero dei morti senza nome, resterebbe impossibile fermarli.
Stanno arrivando, inermi e con intenzioni pacifiche, nei luoghi delle nostre vacanze estive. L’ecatombe in corso non basterà a sbarazzarcene. La soluzione-tampone di sparare agli scafisti, ipotizzata già quindici anni fa quando partivano dall’Albania e traversavano l’Adriatico, non corrisponde alla dimensione epocale del rivolgimento planetario in corso. Nel suo linguaggio semplice, è stato sempre Francesco, pochi giorni fa, ricordando gli eventi del 1915, a parlare di genocidio. Ebbene, l’Europa contemporanea, afflitta dal rapido impoverimento dei suoi paesi rivieraschi, si trova di nuovo a fronteggiare la possibilità di un genocidio, come dimostrano le cifre dei morti e gli sguardi dei sopravvissuti.
Chi scampa alla traversata, chi viene raccolto in mezzo al mare dai mercantili e dalle motovedette, reca a noi questa inoppugnabile testimonianza. Poco importa che si siano ammassati a bordo dei gommoni e dei pescherecci di loro spontanea volontà, dopo essersi svuotati le tasche. La loro condizione umana è in tutto e per tutto simile a quella dei deportati nel cuore dell’Europa settanta anni fa, stipati su carri merci blindati. Identico è l’andare verso l’ignoto, denudati, separati a casaccio dai familiari, umiliati come sottouomini. L’unica differenza è che sta diventando impossibile fingere di non vederli. Non un vescovo, ma una donna laica come Emma Bonino, lo ha detto ieri: l’Europa che ha innalzato il suo “mai più” dopo aver sopportato l’orrore dei forni crematori, finora non ha fatto nulla per impedire l’orrore dei forni liquidi. Pur disponendo di tutte le tecnologie e i mezzi tecnici necessari a monitorare i lager di raccolta dei profughi, i porti di partenza dei barconi e le loro rotte di navigazione, l’Ue con Triton ha dato ordine ai suoi militari di limitarsi al presidio della cosiddetta area Schengen: azione circoscritta non oltre i 30 chilometri dalle nostre coste. Una decisione subita con imbarazzo dalla Marina Militare italiana, tanto più che dal Viminale veniva giustificata asserendo che i 9 milioni al mese di Mare Nostrum — 300mila euro al giorno — sarebbero una cifra eccessiva.
Così siamo giunti alla situazione odierna. Il cinismo dei governanti e l’indifferenza delle opinioni pubbliche si sono confermati palliativi inefficaci di un’Unione Europea rattrappita in una visione miope dei suoi interessi. Ancora oggi i responsabili politici esitano a utilizzare una parola che loro stessi hanno contribuito a rendere impopolare: accoglienza. La bontà e la cattiveria qui non c’entrano un fico secco. Si tratta di gestire con realismo un flusso migratorio provocato da guerre sfuggite al nostro controllo, cercando di prevenire la saldatura (in parte già avvenuta) fra i trafficanti che monopolizzano la navigazione marittima e i jihadisti che presidiano porzioni crescenti di terraferma.
Eppure ce n’erano, di opportunità d’azione tempestiva. Istituire presidi per l’identificazione e lo smistamento dei profughi già nei loro primi luoghi di transito. Condividere tra gli Stati membri l’accoglimento delle richieste d’asilo, in deroga agli accordi di Dublino. Garantire un servizio di traghetti e voli charter. Forse si fa ancora in tempo.
Poveri europei messi al cospetto di una povertà assoluta. Trascinati in una sorta di guerra del mare che miete vittime a migliaia e che invano si vorrebbe poter ignorare. Però loro arrivano, e quando ci protendono le braccia da una zattera in mezzo a quel mare non c’è altro gesto d’umanità possibile che protendere verso di loro le nostre braccia. Non c’è altra salvezza che una salvezza comune. Trasformando i sommersi in salvati.


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