Nucleare, le trattative difficili Gli Usa: potremmo rompere

by redazione | 2 Aprile 2015 9:38

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LOSANNA Un’altra notte di trattative estenuanti, complesse. Un’altra sequela ininterrotta di sedute plenarie e bilaterali, sessioni tecniche, videoconferenze. C’è stata battaglia su ogni singola riga, su ogni passaggio della dichiarazione politica, che dovrebbe concludere la maratona del Lemano. I Paesi 5+1 e l’Unione Europea hanno negoziato duramente fino all’alba con la delegazione iraniana i termini del grande compromesso, che mira a limitare le capacità nucleari di Teheran, in cambio di un allentamento delle sanzioni.
Ma tra mille ostacoli, velate minacce e battute d’arresto, nelle antiche sale dell’Hotel Beau Rivage, le stesse dove nel 1923 Lord Curzon, Poincaré e Mussolini negoziarono il Trattato di Losanna, è maturato ieri notte l’embrione dell’intesa, che una nuova fase negoziale dovrà riempire di contenuti tecnici, numeri, date e clausole non ambigue, da qui al 30 giugno prossimo.
Tutto era pronto nella biblioteca del Politecnico, gioiello architettonico firmato dai giapponesi Sejima e Nishizawa, per la cerimonia di presentazione del documento finale da parte di Mohammad Javad Zarif, capo della diplomazia sciita, e di Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue. Ma come ha spiegato il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, c’è stata «lotta dura» sulla formulazione fino alla fine. Anche perché si stava cercando di mettere a punto alcuni testi tecnici aggiuntivi, che delineassero meno genericamente il percorso dei prossimi mesi.
Era stato Abbas Araqchi, uno dei capi negoziatori iraniani, a indicare esplicitamente le criticità della trattativa: «Noi insistiamo perché siano eliminate immediatamente le sanzioni finanziarie, petrolifere e bancarie. Per le altre occorrerà fissare un calendario. E insistiamo anche nella possibilità di continuare ricerca e sviluppo con le centrifughe di nuova generazione», aveva dichiarato alla tv di Stato. Ma poi aveva aggiunto che la dichiarazione finale non sarebbe stata molto dettagliata, confermando indirettamente che il governo del presidente Rouhani, alle prese con l’opposizione dell’ala dura del regime, in questa fase non vuole o non può permettersi di firmare un’intesa completa fin nelle specifiche tecniche.
Nel frattempo, le agenzie di stampa iraniane citavano fonti diplomatiche vicine alla trattativa, secondo cui erano Stati Uniti e Francia ad avere la posizione più dura sullo smantellamento delle sanzioni, che vorrebbero lento, graduale e strettamente collegato alla verifica del rispetto degli accordi da parte dell’Iran.
Di fronte a questa offensiva mediatica, chiaramente tesa a dominare la narrativa dei negoziati, gli occidentali hanno reagito, agitando lo spettro di una clamorosa rottura. Lo stesso Steinmeier non ha escluso un fallimento, gettando sull’Iran l’onere di presentare nuove proposte. Mentre da Washington, il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha detto che Teheran finora «non ha offerto impegni tangibili» e che, in caso di mancato accordo, il regime persiano «potrebbe subire un aggravamento delle sanzioni».
Sul fondo, emerge soprattutto il profondo divario culturale, scavato da quasi quattro decenni di ostilità e reciproca demonizzazione tra i due principali protagonisti, Stati Uniti e Iran, che nessuna chimica personale, come quella creatasi tra i due ministri degli Esteri, John Kerry e Mohammad Javad Zarif, può colmare in così breve tempo. Ne ha dato ieri un esempio proprio Zarif, il più deciso al compromesso, quando ha accusato gli occidentali, gli americani in particolare, di avere una «volontà politica difettosa»: «Ho sempre detto — così il ministro sciita — che accordo e pressioni non vanno insieme. Quindi i nostri amici devono decidere se vogliono intendersi con l’Iran sulla base del rispetto o continuare a metterci sotto pressione». Una frase che vale un intero ragionamento politico: più dei numeri e del grado di arricchimento dell’uranio, per Teheran è soprattutto questione di status.
Paolo Valentino
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