Primi segnali da Atene Le entrate fiscali rispettano gli impegni

Primi segnali da Atene Le entrate fiscali rispettano gli impegni

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 Atene. Cresce la rabbia europea per il «dilettantismo», i «ritardi» e «le riforme incomplete e inaffidabili» che i negoziatori greci portano al tavolo. Ma quando si cerca di conoscere anche la versione di Atene ci si scontra con problemi pratici tipo «mi potrebbe richiamare lei che non ho più credito nel telefonino?». Non è solo l’icona pop Varoufakis a viaggiare in economy per accrescere il suo fascino da (è un’autodefinizione) «marxista irregolare». Gran parte dei ministeri ellenici hanno rinunciato ai costi per gestire un proprio account di posta e si affida a gmail. Il nuovo esecutivo di Atene è ormai oltre l’imbarazzo populista delle auto blu: è entrato nell’era del governo low cost nel quale gli sherpa delle negoziazioni usano la loro scheda ricaricabile per le chiamate di lavoro.

Tra tante disfunzioni e inefficienze, però, la spending review, dicono i dati greci, sta andando meglio del previsto. E se, per esperienza, non ci si fida delle statistiche locali a confermarlo c’è anche il report di Credit Suisse: «Il rapporto tra entrate e uscite correnti di Atene è pressoché in ordine, non sono necessarie altre misure di austerità». Le cifre? Eccole: nei primi due mesi dell’anno le entrate fiscali erano crollate di un miliardo. Poi con la legge per rateizzare nei prossimi 8 anni in 100 pagamenti dei debiti arretrati verso lo Stato (tasse e contributi previdenziali) i versamenti hanno cominciato ad affluire abbondanti. A marzo il boom. In un solo mese Atene ha incassato abbastanza per ripianare i mancati introiti dei due mesi precedenti e ad aprile pensa di superare quanto concordato tra passato governo e troika.
Al ministero dell’Economia dietro Piazza Syntagma accusano i creditori di pretendere un accordo su tutti i punti del memorandum approvati dal vecchio esecutivo. «Si stanno rimangiando il compromesso del 20 febbraio quando ci avevano dato la possibilità di proporre le nostre politiche a patto che rimanessimo senza deficit – racconta una funzionaria vicina al vice premier Dragasakis –. Siamo convinti che i negoziatori tecnici abbiano ricevuto un ordine politico. Molti governi europei non vogliono vedere la Grecia sopravvivere senza seguire l’ortodossia dell’austerità. Così quando hanno capito che riuscivamo a spendere meno e incassare le tasse stabilite è scattato l’allarme e l’ordine di bloccare le trattative».
Che i rapporti siano incandescenti lo testimoniano le critiche fatte filtrare da quasi tutte le capitali contro Varoufakis. Il ministro delle Finanze ha risposto ieri su Twitter alla sua maniera, provocatorio e aggressivo, citando il presidente Usa Franklin Delano Roosevelt: «Sono uniti nel loro odio contro di me. Che quell’odio sia il benvenuto». «Mi sento come Roosevelt in questi giorni».
Ma al di là degli scontri di personalità, quali sono i punti critici che impediscono l’accordo? Da fonti europee e greche sostanzialmente tre: pensioni, privatizzazioni e contratti di lavoro. «In tutti i casi – sostiene lo sherpa greco senza scheda telefonica – quando arriviamo a discutere nel merito delle nostre idee la risposta è sempre la stessa: “Non potete calcolare il risultato economico di un’iniziativa totalmente nuova, dovete fare come diciamo noi”. Così la trattativa si arena».
Qualche esempio. Le pensioni. Il sistema è crollato nel febbraio 2012 al primo haircut del debito greco quando anche i buoni del Tesoro accantonati dalla Previdenza Sociale sono stati svalutati del 75%. Da allora le pensioni greche sono state tagliate anche del 50% e la proposta dell’attuale governo è di aumentare gli assegni minimi. «Per noi è una questione umanitaria visto che quasi la metà del Paese sopravvive grazie ai nonni – dice il mediatore greco –. Quanto alla sostenibilità, proponiamo di devolvere alla cassa pensioni il 50% delle future privatizzazioni. L’Europa invece vorrebbe che quei soldi riducessero il debito e, per sostenere il sistema pensionistico, ci chiedono di non alzare i minimi e di fondere in un’unica cassa gli accantonamenti obbligatori e quelli volontari. Chi ha versato in più verrebbe derubato. Sarebbe legale in qualsiasi altro Stato d’Europa? Comunque se obbedissimo verrebbe a mancare sia il sostegno umanitario sia quello alla crescita dei consumi interni».
Altro esempio: la raccolta fiscale. «Noi vorremmo – continua il tecnico senza telefonino – gravare sui grandi conglomerati e ridurre l’evasione fiscale. Dall’ex troika ci rispondono che non si può calcolare quanto riusciremmo a raccogliere, quindi meglio aumentare l’Iva e le imposte dirette che hanno parametri sperimentati. Sarebbe l’ennesimo colpo alle classi medio basse e non otterremmo alcun stimolo alla crescita. Il problema è che neppure ci ascoltano. Il muro contro muro non si risolve tra noi tecnici, ci vuole una decisione politica: vogliono soffocarci nei nostri debiti o permetterci di risollevarci?» .
Andrea Nicastro


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