Terremoto sul tetto del mondo più di mille morti in Nepal Una valanga fa strage di scalatori

by redazione | 26 Aprile 2015 8:40

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KATMANDU . Palazzine di sette piani attorno alla mia casa sono crollate sotto i miei occhi. Ieri c’erano, oggi sono scomparse, assieme alle famiglie che incrociavo ogni giorno. Oltre mille sono i morti delle cifre ufficiali, centinaia i feriti. Nella capitale alcune tra le piazze e le strade storiche attorno all’antico Palazzo Reale, patrimonio dell’Unesco, come Durbar square, sono deturpate o ridotte ad ammassi di mattoni e legni intarsiati.
Anche la cima dell’Everest si è mossa sulla spinta di una scossa pari al 7,9 della scala Richter, lasciando cadere a precipizio dal Monte Pumori distante appena 8 km una valanga che ha travolto e ucciso almeno 18 stranieri che si apprestavano a scalare o scendevano dalla vetta del mondo, proprio all’altezza di uno dei campi base. Poco o niente ancora si sa invece dei villaggi attorno all’epicentro tra i distretti di Lamjung e Gorkha, con interi villaggi rasi al suolo e le comunicazioni interrotte. Le scosse sono giunte fino al nord est dell’India, con almeno 20 morti, in Pakistan, in Bhutan e in Cina dove pure ci sono state vittime.
È stato un cataclisma con rari precedenti sul tetto del mondo: l’ultimo risale a 82 anni fa. E pensare che appena una settimana fa cinquanta sismologi di tutto il mondo proprio a Katmandu avevano dato l’allarme per “l’incubo in arrivo”. Oggi un calcolo dettagliato dei danni e della perdita di vite è difficile, come l’opera di soccorso in città e nei piccoli centri delle regioni montagnose, dove piove spesso, il cielo è plumbeo e la notte scende subito. Le scosse sono continuate, al ritmo di mezz’ora l’una dall’altra. E la gente in preda al panico evitava di rientrare nelle case rimaste in piedi. Quando si riprenderanno gli scavi, e arriveranno le prime notizie dall’epicentro del sisma, la cifra salirà, e sarà chiara l’immensità dello sforzo che aspetta i soccorritori e la popolazione intera, già provata da condizioni economiche e di vita dure se non primitive nelle aree rurali colpite. «Aiutateci, non possiamo farcela da soli», è stato l’appello lanciato al mondo dal governo del Nepal, fino a ieri alle prese con le liti sulla nuova Costituzione post-monarchia e ora travolto da un disastro immane.
Qui attorno al mio quartiere e ovunque a Katmandu è buio pesto, le linee del telefono e Internet sono disturbate o interrotte, così le famiglie e gli stessi gruppi di soccorso non possono comunicare. Dappertutto si vede gente piangere. Gruppi di bambini da soli o con qualche adulto cercano i genitori attorno ai palazzi crollati. Non esiste un servizio di protezione civile, e tutti si organizzano come possono, scavando a mano, o con l’aiuto dell’esercito che fa del suo meglio. Le strade sono interrotte e le emergenze ovunque, gli ospedali come il Norvic sono colmi di morti e di feriti, spesso lasciati fuori in attesa di un medico, un infermiere, o uno spazio in corsia. Ovunque in città si sentono i lamenti delle persone rimaste intrappolate, le grida sembrano aumentare man mano che il buio si avvicina e aumenta il silenzio attorno. Le macchine e le moto non possono andare in strada per via delle enormi crepe e anche i soccorsi sono organizzati tra vicini.
A Lalitpur i giardini di Patan Durbar, che erano circondati da antichi templi oggi distrutti, sono trasformati in campo per gli sfollati. La gente resta all’aperto nei rari slarghi tra i palazzi, condividendo il cibo, in una città congestionata dalle costruzioni: sono rimaste in piedi solo le nuove e le più fortunate. Sono quasi rasi al suolo i monumenti orgoglio del Paese e patrimonio dell’umanità, le piazze storiche come Durbar e l’area del tempio di Shiva a Pashupati (che però è quasi intatto). La residenza di tante dinastie di sovranidèi è deturpata da crepe profonde e il muro di cinta della caserma delle famose guardie reali è crollato lasciando scoperto un fianco, ora protetto dai cavalli di frisia.
Ma la tragedia umana più toccante è stato il collasso della celebre torre di Dharahara, la più alta, con i suoi nove piani costruiti nel 19esimo secolo, dai quali si godeva la vista dell’intero centro storico. Decine di turisti e locali, forse una cinquantina, sono rimasti intrappolati dentro. Gruppi di volontari e soldati hanno estratto i primi corpi, ma i mezzi sono scarsi e si procede lenti. Si sa solo che in mattinata erano stati venduti quasi 200 biglietti d’ingresso, ma è difficile stabilire quanti si trovavano all’interno al momento del crollo.
Se a Katmandu la violenza delle scosse è stata grande, ancora più forte la terra ha tremato attorno all’epicentro, dal quale giungono solo voci di interi villaggi distrutti come Manglung. «Metà degli abitanti sono scomparsi o morti », ha detto Vim Tamang, uno dei sopravvissuti che vive all’aperto per paura delle nuove scosse. Ma oltre al Nepal ha tremato l’intero nord est dell’India, compresa la capitale Delhi, il Bengala, l’Uttar Pradesh, il Bihar, dove ci sono stati almeno 20 morti, la Cina.
In Nepal sono rimasti pesantemente colpiti 35 dei 75 distretti per lo spostamento della massa himalayana che ha trovato sfogo a soli dieci chilometri sotto terra, così che l’effetto secondo gli scienziati è stato ancora più diffuso e violento in superficie. Poiché mancavano cinque minuti a mezzogiorno ed era sabato, pochi camminavano per strada nei quartieri di Katmandu dove sono avvenuti gran parte dei crolli. Fosse successo di notte sarebbe stata un’ecatombe.
Gianni Ara è un tour operator italiano che vive in Nepal da venti anni. «Ero sul terrazzo di casa – racconta – quando mi sono sentito spostare violentemente e ho fatto appena in tempo ad afferrare la ringhiera perché non mi tenevo più in piedi. Allora ho guardato fuori e la gente scappava in basso alla ricerca di rifugio, ma non ci sono molti luoghi aperti. Allora ho preso la moto e cambiando direzione per le strade bloccate dai crolli sono arrivato a Durbar square. La desolazione di quel posto meraviglioso mi ha scioccato, quasi metà della mia vita l’ho passata camminando tra questi palazzi e templi che ora sembrano rovine di guerra». ( testo raccolto da Raimondo Bultrini)
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