« Accogliere i migranti ». «No, prima noi» In piazza le anime (opposte) di Padova

« Accogliere i migranti ». «No, prima noi» In piazza le anime (opposte) di Padova

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PADOVA In via Anelli non c’è più nessuno. Il muro era in realtà uno sbarramento di lamiera lunga settanta metri, ma vennero da tutto il mondo per filmarlo e raccontarlo. Sono rimasti soltanto i sette palazzi dalle facciate verdi. In quel 2006 delimitavano il confine di un ghetto abitato da spacciatori e prostitute che andava isolato dal resto della città. Adesso la strada è una specie di deserto urbano, finestre sbarrate e insegne spente. Il contenzioso tra il Comune e i privati che comprarono le case a pochi soldi dopo che furono svuotate dai loro occupanti sta rallentando la riqualificazione della zona, popolata solo da qualche studente attratto dagli affitti a basso costo.
Quello fu il primo, il manifesto ideologico del centrosinistra legge e ordine, incarnato dal sindaco Flavio Zanonato, al quale non dispiaceva l’etichetta di sceriffo. Ne vennero altri, muri o sedicenti tali, che fossero parrocchie circondate dal filo spinato o il recinto sorto nottetempo intorno a un campo rom abusivo. Padova ha solo duecentomila abitanti, 32 mila stranieri residenti e in regola, altri trentamila più o meno invisibili, 35 rifugiati, 240 profughi gestiti dalle cooperative e molti muri da raccontare. L’ultimo in ordine di tempo è quello che verrà eretto oggi, invisibile ma resistente alle ragioni dell’uno e dell’altro. Fiaccole contro ramazze. I due cortei partiranno dal municipio e prenderanno direzioni opposte, come le idee che intendono esprimere.
«Non scriva il nome del mio negozio. Dall’altra parte ci sono anche i centri sociali…». Stefano Pellizzari, presidente dell’Associazione commercianti del centro, ha avuto l’idea della fiaccolata anticlandestini con annessa raccolta firme. Le parole d’ordine sono le stesse cavalcate dal sindaco leghista Massimo Bitonci, anche se la sovrapposizione viene evitata per dovere d’ufficio dai diretti interessati. «Siamo privati cittadini» dice il primo «preoccupati per la sorte del cuore della nostra città. L’ospitalità ai clandestini nelle case private è puro assistenzialismo, dannoso per le nostre attività». Le possibili alternative sono altrettanto sgradite. «Caserme e immobili dello Stato dovrebbero essere destinate ad attività più utili. I migranti bisogna aiutarli a casa loro». Bitonci parteciperà da privato cittadino, quindi, anche se quando ne parla gli scappa spesso di chiamarla «la nostra manifestazione». «Rappresenterà la maggioranza dei padovani, contrari al buonismo peloso. Prima vengono i nostri giovani, i disoccupati, i pensionati. Poi eventualmente la solidarietà agli altri, ma senza spendere un soldo pubblico».
Le ramazze sono quelle dell’altra Padova, i quasi duemila volontari delle associazioni di accoglienza ai migranti, mischiati ai rifugiati africani, ai centri sociali, alle suore francescane e ai preti «cattocomunisti», definizione dell’ineffabile Bitonci. Come don Luca Ravarin, ex missionario, promotore della manifestazione alternativa e titolare della cooperativa che gestisce in comodato d’uso gli appartamenti di corso Milano fotografati dal sindaco in persona per essere poi esibiti al resto della città come pietra dello scandalo. «Comunista? Evangelico, piuttosto. Per un cristiano, mi risulta lo sia anche Bitonci, accoglienza è una parola non negoziabile. Possiamo metterci d’accordo sulle modalità. Ma non sul sì o sul no. Rivendico il diritto civico e cristiano al valore dell’accoglienza».
La zona intorno alla stazione non ha neppure un nome. Una terra di nessuno diventata porta d’ingresso per chi vuole raccontare l’epicentro di un malessere del Nordest diffuso e difficile da chiudere in una sintesi. Perché nello spazio di pochi metri vivono realtà opposte e inconciliabili. Appena viene sera scattano i controlli davanti alla stazione. Un ragazzo di colore dall’aria alterata viene fermato da due agenti. Mentre sta arrivando il cane antidroga si divincola e comincia a correre, inseguito anche da una volante. Sparisce in un vicolo. Dall’altra parte della piazza si aprono le porte delle Cucine popolari. Esistono da 130 anni, ospitano tutti, immigrati, tossici, senzatetto, chiunque cerchi di sopravvivere sulla strada, come dice suor Lia, che le dirige da vent’anni. «La gente va aiutata e basta». Due città, due cortei. E un muro che sempre più si sta alzando nelle nostre teste.
Marco Imarisio


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