Il lupo neoliberale

Il lupo neoliberale

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C’è un lupo (bella coper­tina di Lisa Gelli) ad acco­glierci sulla soglia di que­sto agile, ma molto denso e ric­chis­simo di docu­men­ta­zione e dati, Prove di paura. Bar­bari, mar­gi­nali, ribelli (Gruppo Abele, pp. 191, euro 14) di Livio Pepino. A Pepino dob­biamo da sem­pre il merito, piut­to­sto raro nel paese degli emer­gen­zia­li­smi ad oltranza, con­di­visi da destra e troppo spesso da sini­stra, di aver difeso sem­pre con tena­cia e luci­dità il fronte delle garan­zie. Ma, ancor più, di aver soste­nuto un garan­ti­smo com­ples­sivo, all’interno di una visione impe­gna­tiva e ricca di uno stato sociale di diritto avan­zato. Sem­pre più net­ta­mente, nel suo per­corso, il discorso sul diritto e sui diritti si è intrec­ciato con gli espe­ri­menti di demo­cra­zia dal basso, con la cri­tica al modello di svi­luppo fon­dato sulle grandi opere e con l’azione giu­ri­dica e poli­tica di difesa del ter­ri­to­rio e dell’ambiente dal sac­cheg­gio da parte dei poteri pub­blici e pri­vati: ne è esem­pio la par­te­ci­pa­zione attenta con cui Pepino segue le ragioni e le vicende del movi­mento No Tav.

Que­sto sag­gio è lo spec­chio per­fetto dell’impegno intel­let­tuale e poli­tico del suo autore, arti­co­lato com’è su un dop­pio fronte. Da un lato, è una let­tura cri­tica, che incro­cia in modo molto utile teo­ria giu­ri­dica e dati empi­rici, sulle stra­te­gie di governo della paura che segnano le poli­ti­che cri­mi­nali con­tem­po­ra­nee. Dall’altro, è un viag­gio tra le sog­get­ti­vità con­crete, tra i bar­bari, i mar­gi­nali e i ribelli, con­tro cui quelle poli­ti­che secu­ri­ta­rie con­ti­nua­mente si mobi­li­tano. Sul primo fronte, quello della cri­tica del governo con­tem­po­ra­neo della paura, incon­triamo evi­den­te­mente il lupo che ci aspet­tava in coper­tina: è la scena pri­ma­ria della moder­nità, lo stato di natura evo­cato da Tho­mas Hob­bes, quell’insicurezza radi­cale e dispe­rata da cui la città prima, lo stato nazio­nale poi, hanno sto­ri­ca­mente pro­messo di sal­varci. Una sal­vezza che coin­ci­de­rebbe con l’esclusione, con l’estromissione fuori dai con­fini di tutti gli ele­menti di insi­cu­rezza e di con­flitto che potreb­bero tur­bare la vita ordi­nata dell’ordine politico.

Ma que­sto schema rigi­da­mente bina­rio, ordine/sicurezza/stato da un lato, stato di natura/insicurezza/conflitto dall’altro, si è ben pre­sto sve­lato come un rac­conto tutto ideo­lo­gico. La città – nata per esclu­dere l’insicurezza – «diven­terà nel tempo luogo di paura, per­ché chiun­que può entrarvi, ognuno può muo­versi come vuole», ricorda Pepino. Allo stesso modo, lo stato nazio­nale, quel Levia­tano che doveva paci­fi­care defi­ni­ti­va­mente i lupi, «sarà spesso pro­ta­go­ni­sta di oppres­sione e cor­ru­zione sul ver­sante interno e di guerre con­ti­nue all’esterno, al punto che la società si sen­tirà sem­pre meno pro­tetta». Lo schema ideo­lo­gico che leg­geva l’ordine sta­tale come spa­zio di sal­vezza nei con­fronti dell’insicurezza radi­cale si rivela ben pre­sto per quello che è: una fra­gile nar­ra­zione a fine di legit­ti­ma­zione del potere. Nella realtà, la paura, lungi dall’essere defi­ni­ti­va­mente tenuta fuori dalle mura della città ben sicura, viene con­ti­nua­mente pro­dotta e ripro­dotta, non­ché uti­liz­zata per riscri­vere quo­ti­dia­na­mente con­fini, moda­lità e gra­da­zioni dell’inclusione e dell’esclusione sociale.

Nella crisi dello stato sociale e con­tem­po­ra­nea­mente all’attacco delle poli­ti­che neo­li­be­rali, que­sta con­ti­nua capi­ta­liz­za­zione della paura, secondo l’espressione di Zyg­munt Bau­man ricor­data da Pepino, pro­duce tutta una gamma, molto dif­fe­ren­ziata e modu­lare, di stra­te­gie secu­ri­ta­rie. Resi­ste ovvia­mente la tra­di­zio­nale repres­sione car­ce­ra­ria, con l’innalzamento con­ti­nuo dei tassi di car­ce­ra­zione che ha carat­te­riz­zato il pano­rama peni­ten­zia­rio almeno fino al 2010 e che, come Pepino docu­menta in modo molto effi­cace, non ha nes­suna rela­zione con l’andamento effet­tivo dei tassi di cri­mi­na­lità, in sostan­ziale e costante decre­scita, in barba a tutti gli allarmi sicu­rezza pro­dotti dai mass media. Ma accanto al car­cere, il libro di Pepino illu­stra anche diversi altri dispo­si­tivi secu­ri­tari, che hanno a che fare più con il governo dif­fuso, pre­ven­tivo e ammi­ni­stra­tivo della paura, e che vanno dalle deten­zioni ammi­ni­stra­tive per i migranti, sino all’utilizzo di un’ampia gamma di stru­menti cau­te­lari e di sicu­rezza, sem­pre più segnati da una fun­zione pre­ven­tiva e inti­mi­da­to­ria, piut­to­sto che repres­siva: da stru­menti come il Daspo, col­lau­dati in quel labo­ra­to­rio spe­ri­men­tale del secu­ri­ta­ri­smo che sono diven­tati gli stadi, all’utilizzo sem­pre più fre­quente, come sanno bene i mili­tanti dei col­let­tivi stu­den­te­schi e dei cen­tri sociali, di fogli di via e obbli­ghi di dimora.

Il libro di Pepino, però, non è solo un’analisi det­ta­gliata di que­sti dispo­si­tivi: c’è l’altro lato di cui dice­vamo all’inizio, il ten­ta­tivo cioè di resti­tuire carne e san­gue ai sog­getti reali che sono inse­guiti, con­trol­lati e gover­nati dalle stra­te­gie secu­ri­ta­rie vec­chie e nuove. Non è pos­si­bile ela­bo­rare un discorso sulle paure non stru­men­tale, scrive molto oppor­tu­na­mente Pepino, se non si esa­mi­nano quelle sog­get­ti­vità che le poli­ti­che secu­ri­ta­rie vor­reb­bero ridurre a fan­ta­smi, in un pro­cesso di derea­liz­za­zione che pre­ten­de­rebbe di farne spet­trali fat­tori di rischio, ombre disin­car­nate, minacce da neu­tra­liz­zare. Per que­sto, il libro attra­versa le vite dei bar­bari (gli stra­nieri, i migranti, i nomadi, le figure dell’alterità che minac­ciano il mito dell’omogeneità interna ai con­fini nazio­nali), dei mar­gi­nali (le vec­chie e nuove povertà, sulle quali torna ad abbat­tersi, con nuovi anda­menti «gover­na­men­tali», la guerra alle classi peri­co­lose, oggi con­dotta attra­verso un work­fare sem­pre più disci­pli­nare), dei ribelli (dai movi­menti sociali ter­ri­to­riali ai cen­tri sociali, alla gestione poli­zie­sca sem­pre più inca­pace di poli­tica e di trat­ta­tiva dell’ordine pub­blico e delle piazze).

Ed è solo a par­tire da poli­ti­che che attra­ver­sino que­ste sog­get­ti­vità reali, che può aprirsi la strada indi­cata in con­clu­sione da Pepino: una tra­sfor­ma­zione di para­digma che rico­no­sca il fal­li­mento radi­cale dello stato hob­be­siano, mono­po­li­sta della gestione della sicu­rezza, e che guardi a poli­ti­che non para­noi­che, in grado di «resti­tuire un posto al disor­dine», di ritro­vare forme diverse e dif­fe­ren­ziate, poli­ti­che, di media­zione pro­dut­tiva e avan­zata dei con­flitti. E forse, aggiun­ge­rei, rom­pere le stra­te­gie secu­ri­ta­rie signi­fica prin­ci­pal­mente, pro­prio a par­tire da quelle sog­get­ti­vità reali, oltre­tutto oggi sem­pre meno «mar­gi­nali» o «escluse» in senso clas­sico, lavo­rare per costruire ambiti di radi­ca­liz­za­zione demo­cra­tica e di vita-in-comune, isti­tu­zioni che si nutrano della valo­riz­za­zione della coo­pe­ra­zione sociale piut­to­sto che dell’incubo della sicu­rezza pro­prie­ta­ria. In fondo ce lo indi­cava già Spi­noza, con­tro Hob­bes: la secu­ri­tas non è com­pito da dele­gare a un sovrano sal­vi­fico, ma cre­sce insieme alla potenza demo­cra­tica che il corpo poli­tico rie­sce a sviluppare.



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