by redazione | 31 Maggio 2015 10:20
È divampata d’improvviso una questione che covava sotto la cenere da almeno tre anni. Da quando il nostro improvvido legislatore ha introdotto in Costituzione una disposizione che impone di assicurare l’equilibrio di bilancio. Spetta evidentemente al governo e alla maggioranza parlamentare assicurare il rispetto del vincolo costituzionale, mentre il nostro giudice delle leggi ha il compito di sindacare il loro operato per accertarne la conformità alla Costituzione. In una sorta di inversione delle responsabilità si accusa ora la Corte costituzionale di non rispettare con le sue decisioni le scelte economiche della maggioranza, aggravando gli squilibri finanziari.
La vera posta in gioco è però un’altra, assai delicata. La Consulta è stata chiamata a definire l’ambito di applicazione dell’articolo 81 e il senso complessivo della nuova normativa in materia di equilibrio di bilancio. Detto in breve, ci si chiede sino a dove può spingersi l’esigenza di garantire la stabilità del sistema economico complessivo. Può giungere a violare diritti costituzionalmente protetti? Se l’esigenza di sostenibilità del debito ha ormai un suo fondamento costituzionale, anche il rispetto dei diritti è imposto. Si tratta, pertanto, di operare un bilanciamento tra principi tutti di livello costituzionale.
C’è un altro elemento che deve essere preso in considerazione e che appare decisivo per qualificare il “bilanciamento” che si pone a fondamento delle decisioni del giudice delle leggi. La stabilità tra le spese e le entrate può essere conseguita in base a scelte (politiche) variabili. Quindi, il ripristino di un diritto costituzionale violato non comporta di per sé un vulnus irreparabile, ma in caso impone una variazione di bilancio resasi costituzionalmente necessaria. Tra le ragione dell’equilibrio dei conti e le garanzie per assicurare i diritti costituzionali, dunque, si dovrà operare un bilanciamento diseguale, a favore dei secondi.
In questo contesto per ora caotico la Corte sta cercando di mettere ordine con una serie di sentenze. Decisioni tra loro ancora non ben allineate, ma da cui dovranno emergere gli effettivi criteri cui sarà tenuto il legislatore futuro per assicurare la garanzia dei diritti costituzionali in una situazione di crisi economica e di limiti — imposti anche dall’Europa — alle spese. Una giurisprudenza da seguire, allora, con grande attenzione poiché da essa dipende il concreto conformarsi della nostra forma di Stato.
Nel giro di poche settimane sono state depositate due importanti decisioni, tra loro diverse per oggetto e motivazioni proposte, ma che forse già fanno intravedere una strada che la Corte si appresta a percorrere. La prima decisione ha riguardato la cosiddetta Robin Hood Tax (sent. 10 del 2015). Un’imposta addizionale sul reddito che veniva imputata ad alcune imprese petrolifere. In tale occasione, accertata l’incostituzionalità della norma, la Corte, proprio in considerazione dell’esigenza di preservare l’equilibrio delle spese, ha graduato gli effetti della sua decisione, stabilendo che essi dovranno operare solo per il futuro (dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza). Dunque una sorta di compensazione tra le ragioni espresse dall’articolo 81 (equilibrio finanziario) e gli articoli 3 e 53 (eguaglianza e sistema tributario).
Diverso il caso degli adeguamenti pensionistici (sent. 70 del 2015). Si trattava qui non più di salvaguardare il reddito (per dir meglio i sovra-profitti d’impresa), ma di assicurare il diritto fondamentale ad una retribuzione adeguata, anche se differita, spettante a titolo di pensione (articoli 36 e 38). Già in precedenza la Corte aveva evidenziato l’incostituzionalità dell’azzeramento di ogni meccanismo perequativo, ammettendo automatismi ispirati al principio di progressività a secondo delle diverse fasce di importo.
Ora, di fronte alla introduzione di un blocco totale di ogni rivalutazione per tutte le pensioni superiori tre volte il minimo Inps, non vi sono state mediazioni possibili. La tutela dei diritti fondamentali devono prevalere a fronte dell’esigenza di equilibrio delle spese che potrà essere conseguito in altro modo, nel rispetto di tali diritti.
Si può dibattere animatamente la sentenza ma non deve essere sottovalutato il principio espresso. Può discutersi, ad esempio, la congruità di una estensione del meccanismo rivalutativo al 100% per tutte le pensioni – anche quelle di importo più elevato – a scapito di una legittima progressività. Ma si deve tener conto che non può certo essere un giudice a stabilire i criteri (politici) dei meccanismi di adeguamento. Dunque la Corte non aveva grandi margini per distinguere, mentre il governo può sempre stabilire un nuovo sistema per il futuro (il decreto Renzi-Poletti, com’è noto, ha invece, in modo disinvolto, provveduto tanto per il passato, con un bonus, quanto per il futuro, con un nuovo sistema progressivo).
Quel che rimane fermo — e ritengo debba essere valutato positivamente — è però il principio espresso dalla Corte: prima delle ragioni dell’economia vengono i diritti fondamentali delle persone. La politica, l’Europa e la finanza dovranno tenerne conto quando stabiliscono qual è l’equilibrio possibile dei bilanci pubblici. Non era scontato. Vedremo a breve (la prossima tappa riguarderà il blocco degli stipendi dei pubblici impiegati) se si consoliderà questa prospettiva.
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