La governance globale del cibo nelle mani delle big company
Come abbiamo potuto creare un sistema alimentare mondiale che genera contemporaneamente fenomeni quali fame, obesità, cambiamento climatico e spreco del cibo ? All’Expo 2015 si metteranno in mostra le migliori tecnologie per cercare un modo migliore di alimentare il pianeta, ma il vero problema è politico. La responsabilità della sicurezza alimentare, che era compito degli stati, è stata svenduta a mercati e big companies, mentre gli attori in prima linea, come i piccoli produttori agroalimentari locali, hanno perso ogni diritto.
Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito all’aumento del potere delle multinazionali del settore agroalimentare, grazie ai trattati su commercio e investimenti firmati con il consenso di governi compiacenti. La speculazione finanziaria sulla terra e sul cibo ha inflitto il colpo finale ai produttori. Per di più, con il contrarsi dell’attività regolamentatrice dello Stato e lo speculare aumento degli standard privati le multinazionali agroalimentari hanno giocato un ruolo decisivo nello stabilire le regole della loro attività.
Le big companies parlano di una catena mondiale del cibo moderna e produttiva, unico modo di sfamare i nove miliardi di persone che siederanno al tavolo del mondo nel prossimo 2050. In realtà l’offerta mondiale di cibo è più che sufficiente. Il vero problema da affrontare riguarda la difficoltà di accesso alle risorse alimentari e la profonda diseguaglianza nella loro redistribuzione, problema che richiede una soluzione politica piuttosto che mirata al miglioramento delle tecnologie produttive. Inoltre, la convinzione che l’agricoltura industriale sia più produttiva di quella agro-ecologica è stata smontata alla conferenza sull’agro-ecologia organizzata dalla Fao lo scorso settembre.
Se i prezzi dei prodotti del sistema alimentare delle multinazionali del settore dovessero includere i costi sociali – dalle emissioni di gas serra (50% del totale annuale) all’obesità e all’inquinamento dei territori – essi sarebbero di gran lunga più alti di quelli dei piccoli produttori che vendono i loro beni nei mercati locali.
Mentre l’Expo si concentra sul tema delle «best practices», la vera questione da affrontare riguarda il potere, chi lo esercita, con quali effetti e a beneficio di chi. Chi decide in caso di conflitto di interessi? Quali attori pesano quando si prendono le decisioni sul cibo e con quali pesi? Possiamo affrontare gli enormi squilibri di potere e ridare voce alla maggioranza della popolazione, a quelli che soffrono per la fame, a quelli che hanno perso la loro terra? Quali prospettive ci sono per individuare e difendere quei beni comuni e interessi pubblici che sono fondamentali per il benessere delle generazioni presenti e future? Quali sono le iniziative in corso, sia locali che globali, che vanno in questa direzione?
È arrivato il momento di riflettere su queste questioni, considerando che ci stiamo avvicinando sempre di più al limite ecologico, sociale e politico del sistema alimentare mondiale dominante. Le abbiamo già a disposizione. Se abbiamo il coraggio di dire no alle politiche dell’industria agroalimentare, non vuol dire che stiamo saltando nel buio o che stiamo inseguendo un sogno dell’utopia pastorale pre-capitalistica. Negli ultimi tre decenni si è sviluppata una rete solida e sempre più articolata di approcci diversi nella risposta alla produzione e distribuzione di cibo, molto spesso per nulla alternative, visto che rappresentano il modo principale in cui le esigenze alimentari sono soddisfatte. Queste soluzioni sono praticate e sostenute da organizzazioni sempre più autorevoli formate da contadini, pescatori, pastori, popoli indigeni o abitanti delle bidonvilles. Sono le persone più duramente colpite dal problema dell’insicurezza alimentare, ma anche più attive nella ricerca di soluzioni alternative. Molte si identificano con quello che è diventato il movimento per la sovranità alimentare. Queste persone si stanno mobilitando mettendo a frutto le loro esperienze e facendo conoscere le loro rivendicazioni a tutti i livelli e sono state fondamentali per costituire il Comitato per la sicurezza alimentare delle Nazioni Unite, con sede a Roma, il primo forum globale di politica alimentare dove i contadini sono i veri protagonisti (a differenza dell’Expo 2015).
Cosa occorre al movimento per la sovranità alimentare per agire come un contropotere che contribuisca di fatto a frammentare il dominio globale del sistema alimentare industriale in favore di un approccio alla soddisfazione delle esigenze alimentari radicato e governato territorialmente? È fondamentale difendere l’autonomia delle piccole aziende alimentari a conduzione familiare e dei sistemi di produzione locali dalle logiche della grande distribuzione e del mercato. Anche la regolamentazione è decisiva. I diritti delle multinazionali sono difesi da leggi vincolanti, come gli accordi commerciali e di investimento, supportati da forti strumenti esecutivi, mentre i loro obblighi sono soggetti solo a codici di condotta e linee guida volontarie. Abbiamo bisogno di migliorare la nostra pressione sui governi per spingerli a trasformare il diritto globale «soft», vale a dire volontario, come le direttive sulla proprietà della terra e altre risorse naturali adottate dal Comitato sulla sicurezza alimentare mondiale nel 2012, in legge nazionale «hard», cioè vincolanti, al fine di proteggere le persone vulnerabili. Ci si può riuscire quando si esercita una sufficiente pressione dal basso. Il governo indiano ha sfidato le regole dell’Organizzazione mondiale per il commercio sul ricorso agli acquisti pubblici e le scorte per la sicurezza alimentare. Il Camerun ha alzato le barriere tariffarie per proteggere la produzione locale di pollame dall’effetto dumping esercitato dalle importazioni di pollo surgelato scadente e sotto costo. Gli Stati sono tra i peggiori promotori di obiettivi ristretti e miopi, anche se dovrebbero essere l’elemento fondamentale per la difesa dei diritti collettivi dei popoli. Un migliore sistema alimentare mondiale può essere soltanto il risultato della volontà politica comune alimentata dalla mobilitazione generale di cui i movimenti sociali e cittadini – cioè noi tutti – siamo i promotori.
* Esperta di cibo e multinazionali, il suo ultimo libro è «Food Security Governance: empowering communities, regulating corporations» (Routledge 2015)
Traduzione di Alessandro Bramucci
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