Mosca, la parata della rivalsa sull’Occidente
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MOSCA Sarà l’inestricabile racconto di due Russie, la Russia della memoria e la Russia della rivalsa. Sarà la celebrazione orgogliosa di una vittoria, che cambiò il corso della Storia e forgiò nel sangue di 27 milioni di vittime l’identità di un popolo. E sarà la proiezione assertiva e neo-nazionalista di un Paese, che si sente circondato da nemici e ripropone l’idea della propria forza e il mito della propria invincibilità.
Non ha lasciato nulla al caso, Vladimir Putin, nella sceneggiatura del settantesimo anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, l’unica definizione che i russi posseggono per la Seconda Guerra Mondiale. Ogni dettaglio, ogni momento di questo 9 maggio sarà parte di un affresco collettivo, ricco di suggestioni e di messaggi sottotraccia. In fondo, perfino la diserzione di gran parte dei 68 capi di Stato e di governo invitati a partecipare alla cerimonia, soprattutto quella dei principali leader occidentali, alimenta la narrativa della fortezza assediata alimentata dallo dello Zar del Cremlino, che ostenta indifferenza, mentre accoglie i nuovi amici venuti da Oriente.
Alle 10 di stamane la Piazza Rossa, aggettivo che in russo antico vuol dire bella, sarà palcoscenico della più grande parata militare nella vicenda russa e sovietica: tra il museo storico e la cattedrale di San Basilio sfileranno più di 16 mila uomini, fra i quali 1300 soldati di unità speciali straniere, guardie d’elite serbe, granatieri indiani, guardie d’onore cinesi. E ancora 150 aerei da combattimento, più di 200 veicoli corazzati, fra i quali l’ultimo gioiello della difesa russa, l’Armata T-14, il micidiale carro armato di nuova generazione, assurto a simbolo del programma di riarmo da 650 miliardi di euro deciso da Putin. E a ricordare la parità strategica con gli Stati Uniti, ci saranno i nuovissimi RS-24 Yars, i missili intercontinentali che possono trasportare fino a 10 testate nucleari indipendenti.
Sul palco che nasconde il Mausoleo di Lenin, ci saranno il cinese Xi Jinping (con il quale ieri Putin ha firmato una serie di accordi economici) e l’indiano Modi, il presidente egiziano Al-Sisi e il leader di Cuba Raúl Castro. Assenti Obama, Hollande, Cameron e Renzi per protesta contro la politica di Putin in Ucraina, solo alla deposizione dei fiori sulla tomba del milite ignoto lo Zar verrà affiancato da alcuni ministri degli Esteri occidentali, il francese Laurent Fabius e il nostro Paolo Gentiloni. Diversa la scelta della Germania, che ha già mandato il capo della diplomazia, Frank-Walter Steinmeier, a Volgograd, già Stalingrado, teatro della battaglia che cambiò le sorti del conflitto. Angela Merkel verrà domani e tornerà con Putin sotto le mura del Cremlino, per rendere omaggio all’eroismo degli antichi nemici. A mezzogiorno, tutte le chiese di Mosca suoneranno a morto per 15 minuti. In ogni tempio ci sarà un de profundis. E’ la prima volta che la Chiesa ortodossa, pilastro del sistema putiniano, dedica una liturgia ai caduti nella Grande Guerra Patriottica. Diventerà tradizione.
Ma per quanti simbolismi e quanta volontà di potenza Vladimir Vladimirovich avvia voluto caricare nelle celebrazioni, nulla poteva essere aggiunto e nulla può considerarsi esagerato nella totale identificazione dei russi con questa ricorrenza. Non ci sarà nulla di forzato nel corteo dei familiari che porteranno i ritratti dei caduti lungo via Tverskaya per confluire sulla Piazza Rossa, o nei veterani che forse per l’ultima volta parteciperanno a un 9 maggio così significativo. Non c’è nulla di posticcio nella marea di popolo, che dalle prime ore del mattino inonderà come un mare calmo nel centro della capitale.
Certo l’umore sarà quello alimentato da mesi di retorica grande-russa e antioccidentale. Ma con o senza la propaganda del Cremlino, la Guerra Patriottica resta la placenta della memoria collettiva di un popolo, che come nessuno ha pagato nella lotta contro il nazismo: più della metà dei russi ha avuto un parente morto nel secondo conflitto mondiale. Perfino Putin, abbandonando la tradizionale immagine ferrigna, ha ricordato la lotta per la sopravvivenza dei suoi genitori nell’assedio di Leningrado. E’ stata la fugace concessione di un leader, che di regola preferisce il linguaggio della forza e la retorica dell’orgoglio nazionale.
Paolo Valentino
Non ha lasciato nulla al caso, Vladimir Putin, nella sceneggiatura del settantesimo anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, l’unica definizione che i russi posseggono per la Seconda Guerra Mondiale. Ogni dettaglio, ogni momento di questo 9 maggio sarà parte di un affresco collettivo, ricco di suggestioni e di messaggi sottotraccia. In fondo, perfino la diserzione di gran parte dei 68 capi di Stato e di governo invitati a partecipare alla cerimonia, soprattutto quella dei principali leader occidentali, alimenta la narrativa della fortezza assediata alimentata dallo dello Zar del Cremlino, che ostenta indifferenza, mentre accoglie i nuovi amici venuti da Oriente.
Alle 10 di stamane la Piazza Rossa, aggettivo che in russo antico vuol dire bella, sarà palcoscenico della più grande parata militare nella vicenda russa e sovietica: tra il museo storico e la cattedrale di San Basilio sfileranno più di 16 mila uomini, fra i quali 1300 soldati di unità speciali straniere, guardie d’elite serbe, granatieri indiani, guardie d’onore cinesi. E ancora 150 aerei da combattimento, più di 200 veicoli corazzati, fra i quali l’ultimo gioiello della difesa russa, l’Armata T-14, il micidiale carro armato di nuova generazione, assurto a simbolo del programma di riarmo da 650 miliardi di euro deciso da Putin. E a ricordare la parità strategica con gli Stati Uniti, ci saranno i nuovissimi RS-24 Yars, i missili intercontinentali che possono trasportare fino a 10 testate nucleari indipendenti.
Sul palco che nasconde il Mausoleo di Lenin, ci saranno il cinese Xi Jinping (con il quale ieri Putin ha firmato una serie di accordi economici) e l’indiano Modi, il presidente egiziano Al-Sisi e il leader di Cuba Raúl Castro. Assenti Obama, Hollande, Cameron e Renzi per protesta contro la politica di Putin in Ucraina, solo alla deposizione dei fiori sulla tomba del milite ignoto lo Zar verrà affiancato da alcuni ministri degli Esteri occidentali, il francese Laurent Fabius e il nostro Paolo Gentiloni. Diversa la scelta della Germania, che ha già mandato il capo della diplomazia, Frank-Walter Steinmeier, a Volgograd, già Stalingrado, teatro della battaglia che cambiò le sorti del conflitto. Angela Merkel verrà domani e tornerà con Putin sotto le mura del Cremlino, per rendere omaggio all’eroismo degli antichi nemici. A mezzogiorno, tutte le chiese di Mosca suoneranno a morto per 15 minuti. In ogni tempio ci sarà un de profundis. E’ la prima volta che la Chiesa ortodossa, pilastro del sistema putiniano, dedica una liturgia ai caduti nella Grande Guerra Patriottica. Diventerà tradizione.
Ma per quanti simbolismi e quanta volontà di potenza Vladimir Vladimirovich avvia voluto caricare nelle celebrazioni, nulla poteva essere aggiunto e nulla può considerarsi esagerato nella totale identificazione dei russi con questa ricorrenza. Non ci sarà nulla di forzato nel corteo dei familiari che porteranno i ritratti dei caduti lungo via Tverskaya per confluire sulla Piazza Rossa, o nei veterani che forse per l’ultima volta parteciperanno a un 9 maggio così significativo. Non c’è nulla di posticcio nella marea di popolo, che dalle prime ore del mattino inonderà come un mare calmo nel centro della capitale.
Certo l’umore sarà quello alimentato da mesi di retorica grande-russa e antioccidentale. Ma con o senza la propaganda del Cremlino, la Guerra Patriottica resta la placenta della memoria collettiva di un popolo, che come nessuno ha pagato nella lotta contro il nazismo: più della metà dei russi ha avuto un parente morto nel secondo conflitto mondiale. Perfino Putin, abbandonando la tradizionale immagine ferrigna, ha ricordato la lotta per la sopravvivenza dei suoi genitori nell’assedio di Leningrado. E’ stata la fugace concessione di un leader, che di regola preferisce il linguaggio della forza e la retorica dell’orgoglio nazionale.
Paolo Valentino
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