Nuovi giochi di guerra
John Kerry, responsabile della politica estera Usa, ha passato il fine settimana a Pechino dicendo che Washington è preoccupata dal ritmo e dallo scopo delle operazioni cinesi di riempimento con sabbia e cemento degli atolli.
Kerry ha chiesto una soluzione diplomatica: Pechino reclama il 90 per cento di quel mare dal quale passano ogni anno merci per 5 trilioni di dollari, un terzo del totale mondiale; i suoi genieri hanno già costruito isole per 800 ettari nell’oceano, 600 solo quest’anno; è già comparsa anche una pista di tre chilometri capace di far operare aerei militari, oltre a moli per l’attracco di navi.
Il ministro cinese Wang Yi ha parlato di pace, naturalmente, ma non ha concesso niente: «Voglio riaffermare che la determinazione della Cina di proteggere la propria sovranità e l’integrità territoriale è irremovibile, ferma come la roccia». La «fabbrica delle isole artificiali» non si fermerà.
Mentre i ministri parlavano, le flotte dei loro Paesi già si muovevano, dal Mar cinese meridionale fino al Mediterraneo. E in un’azione che ricorda drammaticamente i tempi della Guerra Fredda, i cinesi hanno modificato i loro missili intercontinentali rendendoli capaci di portare testate nucleari multiple.
La Us Navy ha già preparato i piani per sfidare «la grande muraglia di sabbia» ed ha inviato un primo rapporto alla Casa Bianca: uno scenario prevede che aerei militari e navi penetrino nelle 12 miglia dalle coste delle Spratly che Pechino dichiara territorio nazionale. Il Pentagono sta già muovendo le sue unità in nome della «libertà di navigazione».
Washington vorrebbe anche schierare nuovi velivoli in Australia. Il vice segretario alla Difesa David Shear ha parlato di bombardieri B-1 e dei nuovi pattugliatori aerei P8 Poseidon, capaci di missioni a lungo raggio. Un’ipotesi che ha messo in imbarazzo il governo locale nascostosi dietro una debole smentita. Prevedibile anche un impiego dei droni da ricognizione, i grandi Global Hawk.
La Marina cinese in risposta ha inviato sabato la fregata lanciamissili Yulin davanti a Singapore e tre navi in Mediterraneo per manovre con i russi. Pechino sta anche trattando con Gibuti per ottenere un punto di appoggio per le sue unità militari, proprio accanto alla principale base Usa.
Il governo giapponese la scorsa settimana ha approvato un piano legislativo sull’allargamento del ruolo militare del Giappone: quando il Parlamento lo approverà le forze armate di Tokyo potranno affiancare gli alleati in azioni belliche, anche se il Giappone non si trovasse sotto attacco diretto. Dopo settant’anni, finisce il pacifismo della Costituzione.
Potenziano le loro flotte anche il Vietnam, le Filippine, la Malesia, l’Indonesia, per contrastare la Marina di Pechino che può schierare 205 unità di superficie (95 grandi e 110 piccole) e ne farà entrare in servizio forse altre 50 entro un paio d’anni; la flotta sottomarina conta 60 unità delle quali 10 nucleari.
Quindi è il ritorno della Guerra Fredda? Ci sono molti segnali che fanno escludere questa ipotesi. La nuova formula si chiama «Cool War», Guerra Fresca (o distaccata). Questo schieramento di forze militari coesiste con rapporti economici tra Cina, Stati Uniti, Giappone.
È stato appena annunciato che Pechino è tornata ad essere il primo detentore di debito pubblico americano, con 1 trilione e 261 miliardi di dollari di valore.
E Kerry si è concentrato sui prossimi appuntamenti: a giugno si terrà la riunione del Dialogo strategico economico Usa-Cina e a settembre Xi Jinping andrà alla Casa Bianca. L’agenzia Xinhua ha avvisato: «Non permettiamo che distrazioni facciano deragliare la cooperazione sino-americana». Sfida rischiosa e interdipendenza economica indissolubile: è la Guerra Fresca .
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