Quel taglio ai vitalizi già nel codice penale
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Davvero difficile dar torto a Giovanni Ardizzone. «In Italia ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B?», è la domanda (retorica) che si pone il presidente Udc dell’Assemblea regionale siciliana. La serie B sarebbe quella dei consiglieri (pardon, «deputati») della sua Regione, mentre la serie A è invece quella degli onorevoli nazionali. La differenza? «Il codice penale. Ai nostri lo applichiamo. Per quelli eletti a Roma invece evidentemente non vale». Si riferisce, Ardizzone, all’articolo 28 del codice. In base a quello chi ha subito una condanna con interdizione dai pubblici uffici perde il diritto a qualunque assegno a carico dello Stato. Vitalizio compreso. Proprio facendo leva su quell’articolo la Sicilia ha revocato il vitalizio regionale all’ex governatore Salvatore Cuffaro, condannato a sette anni per vari reati fra cui il favoreggiamento a Cosa Nostra. E Cuffaro non e’ neppure un caso isolato: all’ordine del giorno ce ne sono altri due, quelli di Vincenzo Lo Giudice e Giovanni Mercadante.
Quel benedetto articolo 28 però non viene preso in considerazione nelle nuove regole sui vitalizi dei condannati in via definitiva approvate giovedì scorso dalle Camere. Eppure anche l’offensiva del parlamento avrebbe preso le mosse da lì. Maggio 2014: i grillini siciliani scatenano la campagna contro l’assegno vitalizio da seimila euro intascato ogni mese da Cuffaro. La battaglia si estende ben presto al parlamento nazionale mentre in Sicilia il caso dell’assegno regionale all’ex governatore divampa. Ardizzone chiede lumi all’Avvocatura locale, che a sua volta li chiede all’Avvocatura nazionale. Ottenendo una risposta inequivocabile: l’articolo 28 parla chiaro. Il condannato in via definitiva con la pena accessoria dell’interdizione ai pubblici uffici non può percepire nessun assegno dallo Stato.
A scanso di equivoci l’Avvocatura ricorda che una sentenza della Corte costituzionale ha escluso da questa sanzione le pensioni. Ma argomenta che i vitalizi non possono in nessun caso essere equiparati alle pensioni, perche’ non derivanti da un rapporto di lavoro ma da un incarico elettivo. Il vitalizio di Cuffaro quindi salta, ma Ardizzone informa che la cosa non può limitarsi ai soli «onorevoli» siciliani i vertici di Camera e Senato. Dove nel frattempo il Movimento 5 stelle sta facendo il diavolo a quattro. E la cosa finalmente si mette in moto pure a Roma.
I partiti cercano di arginare la slavina. Chi propone una legge per farla finire su un binario morto. Chi invece vorrebbe almeno far scivolare il tutto a dopo le regionali. Ma il presidente del Senato Piero Grasso si impunta, e con lui la presidente della Camera Laura Boldrini. E dopo un diluvio di pareri discordanti, ecco la delibera. Che però non fa riferimento al codice penale. Bensì alla legge Severino. La quale stabilisce, per ragioni imperscrutabili, che l’incandidabilità scatti solo dopo una condanna ad almeno due anni. Così lo stesso limite viene previsto per la perdita (temporanea, s’intende) del vitalizio. Mentre invece l’articolo 28 del codice penale dice che l’assegno decade per il semplice fatto di essere condannati a una pena, non importa la durata, purché preveda l’interdizione dai pubblici uffici. Automatica, anche in caso di pene inferiori a due anni, per reati come ad esempio il peculato. Conclusione: applicando le regole della Regione siciliana costantemente tacciata di furbizia e ipocrisia, anziché la legge Severino, chi ha avuto condanne più lievi, ma comunque disonorevoli per un parlamentare, non si sarebbe salvato.
Invece i nostri parlamentari perdono l’onorabilità, e quindi il vitalizio, solo se condannati a una pena superiore a due anni. E il contrasto fra questo fatto curioso e il codice penale, fa capire Ardizzone, è lampante. Forse ancor più di altri aspetti della delibera contestati dal M5S, come la restituzione del vitalizio in caso di riabilitazione o il fatto che reati quali l’abuso d’ufficio e il finanziamento pubblico dei partiti non comportino la revoca dell’assegno. Si dirà che se non fosse passata questa delibera, e questo era l’unico compromesso potabile, neppure i casi più eclatanti, quali quelli di Marcello Dell’Utri e Cesare Previti sarebbero stati colpiti. Già. Ma c’è anche da chiedersi come mai da vent’anni a questa parte, dopo Mani pulite, nessuno abbia mai sollevato prima d’ora il problema. Non a destra, ma nemmeno a sinistra.
Quel benedetto articolo 28 però non viene preso in considerazione nelle nuove regole sui vitalizi dei condannati in via definitiva approvate giovedì scorso dalle Camere. Eppure anche l’offensiva del parlamento avrebbe preso le mosse da lì. Maggio 2014: i grillini siciliani scatenano la campagna contro l’assegno vitalizio da seimila euro intascato ogni mese da Cuffaro. La battaglia si estende ben presto al parlamento nazionale mentre in Sicilia il caso dell’assegno regionale all’ex governatore divampa. Ardizzone chiede lumi all’Avvocatura locale, che a sua volta li chiede all’Avvocatura nazionale. Ottenendo una risposta inequivocabile: l’articolo 28 parla chiaro. Il condannato in via definitiva con la pena accessoria dell’interdizione ai pubblici uffici non può percepire nessun assegno dallo Stato.
A scanso di equivoci l’Avvocatura ricorda che una sentenza della Corte costituzionale ha escluso da questa sanzione le pensioni. Ma argomenta che i vitalizi non possono in nessun caso essere equiparati alle pensioni, perche’ non derivanti da un rapporto di lavoro ma da un incarico elettivo. Il vitalizio di Cuffaro quindi salta, ma Ardizzone informa che la cosa non può limitarsi ai soli «onorevoli» siciliani i vertici di Camera e Senato. Dove nel frattempo il Movimento 5 stelle sta facendo il diavolo a quattro. E la cosa finalmente si mette in moto pure a Roma.
I partiti cercano di arginare la slavina. Chi propone una legge per farla finire su un binario morto. Chi invece vorrebbe almeno far scivolare il tutto a dopo le regionali. Ma il presidente del Senato Piero Grasso si impunta, e con lui la presidente della Camera Laura Boldrini. E dopo un diluvio di pareri discordanti, ecco la delibera. Che però non fa riferimento al codice penale. Bensì alla legge Severino. La quale stabilisce, per ragioni imperscrutabili, che l’incandidabilità scatti solo dopo una condanna ad almeno due anni. Così lo stesso limite viene previsto per la perdita (temporanea, s’intende) del vitalizio. Mentre invece l’articolo 28 del codice penale dice che l’assegno decade per il semplice fatto di essere condannati a una pena, non importa la durata, purché preveda l’interdizione dai pubblici uffici. Automatica, anche in caso di pene inferiori a due anni, per reati come ad esempio il peculato. Conclusione: applicando le regole della Regione siciliana costantemente tacciata di furbizia e ipocrisia, anziché la legge Severino, chi ha avuto condanne più lievi, ma comunque disonorevoli per un parlamentare, non si sarebbe salvato.
Invece i nostri parlamentari perdono l’onorabilità, e quindi il vitalizio, solo se condannati a una pena superiore a due anni. E il contrasto fra questo fatto curioso e il codice penale, fa capire Ardizzone, è lampante. Forse ancor più di altri aspetti della delibera contestati dal M5S, come la restituzione del vitalizio in caso di riabilitazione o il fatto che reati quali l’abuso d’ufficio e il finanziamento pubblico dei partiti non comportino la revoca dell’assegno. Si dirà che se non fosse passata questa delibera, e questo era l’unico compromesso potabile, neppure i casi più eclatanti, quali quelli di Marcello Dell’Utri e Cesare Previti sarebbero stati colpiti. Già. Ma c’è anche da chiedersi come mai da vent’anni a questa parte, dopo Mani pulite, nessuno abbia mai sollevato prima d’ora il problema. Non a destra, ma nemmeno a sinistra.
Sergio Rizzo
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