Un paese devastato
Il recente Rapporto annuale dell’Istat 2015 sulla situazione del Paese, come nella tradizione di questo istituto, ci mette a disposizione un grandioso affresco analitico-quantitativo sulle condizioni dell’Italia, sempre più ricco di conoscenze e ricognizioni particolari. Qui popolazione, economie, forme del lavoro, territori, sistemi locali, consumi, associazionismo, salute, consumi del suolo, beni culturali, servizi, trovano la loro sistemazione numerica facendoci entrare nel cuore del paese reale. Occorrerebbe che ogni anno, alla sua pubblicazione, si organizzassero un po’ ovunque, nel paese, forum di discussione pubblica: un esercizio di conoscenza e di democrazia partecipativa che educherebbe gli italiani a guardare la realtà nazionale nella sua complessità, oltre la rappresentazione propagandistica che ne danno i media e il ceto politico.
Quest’anno il Rapporto contiene accenni positivi dedicati ai timidi segnali di ripresa economica dei primi mesi del 2015, (Pil, consumi) alcuni dei quali, come gli indicatori della fiducia, rapidamente ripiegati a partire da aprile. Il Rapporto tuttavia non va oltre, com’è ovvio, i segnali che certamente, in quanto tale sono effettivi, e che sono il risultato si potrebbe dire quasi meccanico di una situazione macroeconomica di straordinario vantaggi.
Si tratta della gigantesca immissione di liquidità da parte della Bce, il deprezzamento dell’euro che ne consegue, il vero e proprio dimezzamento del prezzo del petrolio negli ultimi mesi. Ma il rapporto mal si presta a un uso propagandistico per annunciare le magnifiche sorti e progressive che il governo ci sta schiudendo. Perché esso fornisce un quadro completo e impietoso non solo del 2014, ma anche delle linee di tendenza che si sono rafforzate durante quest’anno.
Naturalmente, non è possibile dar conto della ricchezza di dati forniti dal Rapporto, alcuni dei quali del resto già noti da tempo. A fronte di pochi indici positivi, ad esempio un aumento dell’esportazione (+ 2,9%) — ma con una flessione di quella interna (- 1,2%) — si stagliano ben altri dati che rafforzano una tendenza di grave arretramento dell’economia italiana nel suo complesso.
Nell’anno sono ancora diminuiti gli investimenti del 3,3% ed è ancora diminuita lievemente la produzione industriale (-0,5). E’ cominciata a crescere l’occupazione (+0,4%) ma solo per la popolazione anziana, gli stranieri, le donne e nel settore dei servizi. Nell’ industria in “senso stretto” le unità di lavoro sono diminuite lievemente (-0,2). Ma si tratta di un incremento che ha riguardato solo il centro Nord, il Sud ha continuato ad andare giù (-0,8).
Naturalmente com’ è largamente noto, il tasso di disoccupazione è ancora cresciuto rispetto al 2013, passando dal 12, 1% al 12.7%. Quella giovanile è esplosa, ma nel Sud ha raggiunto livelli senza precedenti: essa è «arrivata a toccare il 42,7 per cento(con punte del 55,9 per cento nel Mezzogiorno)».
Si tratta di dati ormai in gran parte passati attraverso la discussione pubblica, ma vederli sistemati in un quadro d’insieme consente di scorgere una linea di tendenza che non ha nulla di congiunturale. Mostra una strutturazione dei fenomeni in una forma che fa ormai sistema. Si pensi al dato storico della riduzione dei distretti industriali: nel decennio 2001–2011 da 181 si sono ridotti a 141. Interi territori industriali si sono desertificati. Mentre un’altra linea rossa che assume ormai carattere strutturale riguarda le forme del lavoro: «L’unica forma di lavoro che continua a crescere quasi ininterrottamente dall’inizio della crisi è il part-time», diventato il 18,4 % dell’occupazione totale. Un part-time in gran parte “involontario”, cresciuto del 40 % dal 2008 e che oggi supera il 63%.
Infine il Mezzogiorno. Quasi tutti i dati mostrano impietosamente un ulteriore arretramento dove neppure i segnali – oggi diventati, come nell’antica Roma, i movimenti delle viscere degli animali per divinare l’incerto futuro — arrivano a dare qualche speranza. Tutto insomma mostra il grandissimo disastro prodotto dalla crisi e continuato dalle politiche di austerità dell’Ue. Da esso non ci tireranno fuori certo gli incoraggiamenti della statistica, i segnali di fumo di qualche stregone, né tanto meno il giubilo propagandistico del presidente del consiglio.
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