Eliminato il « principe di Al Qaeda »

by redazione | 17 Giugno 2015 11:38

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WASHINGTON Nasir al Wuhayshi era uno della vecchia guardia. Il discepolo-soldato di Osama diventato Ma’sul al Amm, il general manager di Al Qaeda e numero due del movimento. Sostituibile come altri, ma con doti non comuni. Per questo la sua uccisione è un colpo duro: l’alto esponente è stato folgorato da un missile sparato da un drone americano nell’Hamadrout, selvaggia regione dello Yemen. «Martirio» confermato dalla Casa Bianca e dall’eulogia dei suoi compagni. Già designato il successore: Qasim al Raymi, fino a ieri responsabile dell’apparato militare.
Al Wuhayshi è partito giovanissimo per l’Afghanistan. Era con Bin Laden quando, nella seconda metà degli Anni 90, ha piantato tende e aperto campi d’addestramento. Il momento della crescita di Al Qaeda. Lo yemenita era sempre al fianco del capo, spesso al lavoro nella fattoria di Tarnak dove affluivano i volontari. Ed è rimasto con Osama fino ai giorni difficili di Tora Bora, rintanati nelle grotte mentre i B 52 sganciavano bombe per stanarli. Non potevano resistere e sono scappati in piccoli gruppi.
Al Wuhayshi è finito, insieme ad altri, in Iran dove è stato aiutato dalla minoranza sunnita. Ma non è durata molto: i pasdaran lo hanno messo in una residenza sorvegliata, così come la moglie e i figli di Bin Laden. È rimasto nella semi-prigionia fino al 2003, quando Teheran lo ha consegnato allo Yemen. Da una casa è passato ad una cella.
In prigione Al Wuhayshi si è creato il suo cerchio magico imponendosi come figura di riferimento. Ed ha atteso il momento propizio per scappare. Il 3 febbraio del 2006, l’estremista e una dozzina di mujaheddin sono evasi attraverso un tunnel costruito con pazienza, una galleria che dal «braccio del carcere» li ha portati fino ad una moschea. Raccontano che per coprire il rumore dello scavo abbiano recitato ad alta voce i versetti del Corano. Con preghiera e pala, l’estremista è riuscito nell’intento.
Da uomo libero Nasir ha contribuito alla nascita del ramo locale di Al Qaeda assumendone in seguito la guida, sostenuto dalla casa madre. Al Qaeda nella penisola arabica è diventata una formazione pericolosa, tenace e dinamica. Il suo artificiere capo, Ibrahim al Asiri, ha messo a punto ordigni che sfuggono ai controlli. I reclutatori, come l’imam Al Awlaki, hanno attirato molti estremisti occidentali.
È un successo che ha inorgoglito i capi nascosti nell’area tribale pachistana. Osama prima, Al Zawahiri dopo. E nel 2013 il medico egiziano ha designato Al Wuhayshi numero due. Ruolo non coreografico ma pratico. Lo yemenita ha cercato di mediare tra i qaedisti siriani di Al Nusra e l’Isis, ha preso posizione contro il Califfo, ha consigliato i fratelli del Maghreb, ha manovrato in Somalia. Non sempre è riuscito nelle sue missioni, però ha conservato il peso del «saggio». E con lui la sua fazione, che ha messo il cappello sull’attacco a Charlie Hebdo ed ha esteso il proprio territorio sfruttando il caos yemenita.
Risultati che hanno spinto Al Wuhayshi nella lista dei bersagli inseguiti dagli Usa. La Cia ha mobilitato fonti e droni, ha contato sulle soffiate saudite e magari persino degli sciiti Houti, ha sfruttato le divisioni tra l’organizzazione storica e lo Stato islamico. Condizioni usate dall’intelligence per falciare numerosi qaedisti. Prima i combattenti, poi i quadri, infine il «principe». Tacche sul cinturone che non si sono però tramutate in una sconfitta. L’idea, a volte, è più forte di chi la interpreta.
Guido Olimpio
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