Migranti, così si ferma ?l’esodo dall’Africa

Migranti, così si ferma ?l’esodo dall’Africa

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 L’alternativa all’emigrazione in Europa, al caos umanitario, ma anche all’idea di bombardare i barconi in Libia, costa davvero poco.Con venticinquemila euro, a Sud del deserto del Sahara si possono creare venti posti di lavoro. Con i 746 milioni consumati dall’Italia per l’emergenza sbarchi nel 2014, daremmo un’attività duratura a 597 mila persone.

Con i due miliardi e 288 milioni spesi dal nostro governo negli ultimi quattro anni, avremmo potuto far lavorare un milione e 830 mila uomini e donne. E garantire una ricaduta positiva sulle loro famiglie per un totale di dodici milioni e ottocentomila persone. In altre parole, con un investimento di 180 euro per persona in Africa e un progetto decente, e soprattutto gestito dai beneficiari, potremmo alla fine fermare al via gran parte degli emigranti in cerca di lavoro. Destinando così l’accoglienza in Europa a quanti chiedono asilo o protezione umanitaria perché davvero in fuga da guerre o dittature: come siriani, eritrei e somali. Il successo dell’esperimento è tutto qui, nel caldo torrido di Makalondi, sulla strada nazionale che dal Burkina Faso porta a Niamey, la capitale del Niger.

Ebrima Sey, 32 anni, è partito dal Gambia e conta di sbarcare in Italia nelle prossime settimane. Vuole trovare un lavoro per aiutare la moglie, il figlio Wally, 2 anni, e la mamma. Dopo 34 giorni di viaggio, il furto del telefonino con tutti i contatti per attraversare il Sahara e arrivare in Libia lo ha bloccato alla stazione degli autobus di Niamey, capitale del Niger, dove ha rilasciato questa intervista. Ebrima Sey dice di non avere paura del deserto, della guerra, dei naufragi: «Se restavo a casa», dice, «era meglio morire». 

Un successo talmente a buon mercato che proprio in questi giorni il progetto, avviato nel 2012 dall’associazione piemontese “Terre solidali” e dall’Università di Torino, verrà chiuso e archiviato dall’Unione Europea. Non è una bocciatura. Funziona proprio così. Bruxelles ci mette il 75 per cento dei soldi necessari, gli altri bisogna trovarseli. Poi però i risultati devono essere raggiunti e rendicontati all’Ue in appena tre-quattro anni, in modo che il commissario di turno possa appropriarsi di cifre e applausi nel corso del mandato. L’Europa industriale sta depauperando il continente da secoli, ma noi pretendiamo che gli africani si rimettano in piedi nel giro di trentasei-quarantotto mesi. Con questi cappi al collo, qualunque Sergio Marchionne troverebbe più conveniente e capitalistico pagarsi il viaggio sul barcone.

Ridotta al caos la Libia, quello del Niger è il primo governo che si incontra a Sud di Lampedusa. Dovremmo chiederci perché negli ultimi quindici anni, da quando l’Africa ha cominciato a sbarcare, i progetti efficaci come quello di Makalondi siano rimasti una rara eccezione. E la risposta non è difficile da trovare. Eccola in bella mostra sotto i 47 gradi all’ombra del piazzale dell’aeroporto internazionale di Niamey. A sinistra, dalla pancia di un gigantesco aereo da trasporto, l’esercito di Parigi sta scaricando armi, container e mezzi per l’operazione militare “Barkhane” che dalla scorsa estate attraversa Ciad, Niger e Mali.

A destra, è parcheggiata la flotta di aeroplani noleggiati dalle organizzazioni che partecipano alla globalizzazione umanitaria: Nazioni Unite, Programma alimentare mondiale, Organizzazione mondiale della sanità. Il bastone e la carota, con cui il mondo ricco ha sempre dominato. È immorale che in queste ore, lassù alla frontiera di Mentone, sia proprio la Francia a impedire la libera circolazione di persone, come accade in occasione di gravi fatti di criminalità. Come se fossimo noi italiani i criminali, per aver scelto di portare soccorso in mare e ridurre il numero dei morti.

Mentre lo stesso governo di Parigi continua a produrre instabilità, povertà e profughi con i suoi piani strategici a sud del Sahara. In questi ultimi drammatici mesi, l’Unione Europea era forse troppo scossa dal massacro di “Charlie Hebdo” per rendersene conto. Ma visti da qui, i responsabili del caos dal 2011 in poi non sono certo le migliaia di persone sbarcate. E nemmeno gli italiani che le hanno soccorse. La voce è quella di Jean-Pierre Chevènement, già ministro francese della Difesa e dell’Interno, in un’intervista a “Le Figaro”: «Nel 2011 noi abbiamo distrutto la Libia… sotto la guida di Sarkozy. Abbiamo violato la risoluzione delle Nazioni Unite, che ci dava il diritto di proteggere la popolazione di Bengasi, e ci siamo spinti fino al cambiamento del regime».

Di fronte al disastro umanitario, il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, è altrettanto diretto: «Bisogna che francesi, americani e britannici vadano in prima linea a riparare i danni che hanno provocato», dice al quotidiano “Le Parisien”: «Che ci assicurino le service après-vente», il servizio post-vendita, aggiunge con ironia il presidente nigerino. Per ora, però, il servizio offerto dal governo socialista di Manuel Valls sono i gendarmi alla frontiera meridionale. E l’ordine perentorio: «I migranti non passano, se ne devono occupare gli italiani». Posizione in sintonia con il collega britannico David Cameron, che sulla proposta di trasferire almeno quarantamila rifugiati da Italia e Grecia, si rifiuta di accogliere un solo straniero al di là della Manica.

Makalondi, municipio rurale di ottantamila abitanti appena oltre la frontiera, è il primo cartello del Niger lungo la rotta percorsa ogni mese da almeno diecimila ragazzi e poche ragazze che da tutta la regione del Sahel, da Gambia, Senegal, Mali, Niger e Nigeria, continuano a salire verso la Libia e l’Europa. Fino a vent’anni fa questa era una regione semiarida di alberi d’alto fusto. Ora è una distesa di sabbia, cespugli e arbusti. La costante riduzione delle piogge e la necessità di energia hanno aperto il paesaggio al deserto. La capitale brucia per cucinare mille tonnellate di legna al giorno e nel giro di pochi anni hanno tagliato anche gli alberi di Makalondi.

I venticinquemila euro del progetto italiano sono stati affidati a un’associazione di donne che ha scelto in autonomia come investirli: hanno aperto un laboratorio alimentato a energia solare per la trasformazione e la vendita di cereali e per la produzione di mangimi animali macinati dagli scarti dell’agricoltura. Non è stato facile, all’inizio. «I progetti di cooperazione decentrata della Regione Piemonte andavano molto bene», racconta Stefano Bechis, ricercatore del dipartimento di Economia e ingegneria agraria (Deiafa) dell’Università di Torino: «Finché è arrivata la giunta Bresso che li ha resi più difficili da gestire. E infine il presidente leghista Cota, che da una parte diceva che gli africani vanno aiutati a casa loro e dall’altra chiudeva la cooperazione regionale decentrata. Come volesse aiutare gli africani chiudendo la cooperazione, è un mistero di quella mente eccelsa dell’ex governatore».Il progetto per il laboratorio però è sopravvissuto ai cambi di rotta della Lega grazie all’approvazione di Bruxelles, all’autofinanziamento e a una donazione della Valle d’Aosta. Ed ecco Catherine Yonli Banyoua, 38 anni, la responsabile, e Madan Terigaba, 42, la tesoriera della piccola impresa, sedute a confezionare pacchi di cuscus con altre sette donne. «Fino a tre anni fa qui non c’era più raccolto», spiega Catherine, «il progetto ha riportato lavoro e cibo. Abbiamo clienti che rivendono i prodotti in Ghana. Siamo solo donne perché la trasformazione del raccolto la fanno le donne. Agli uomini toccano i lavori pesanti». Nessuno ha parenti saliti sui barconi? «No», sorride lei, «nessuna di queste famiglie ha intenzione di andare in Europa. Se c’è lavoro, nessuno si muove». Ousseini Adamou, 46 anni, e Paolo Giglio, 62, partito da Ivrea per l’Africa quarantadue anni fa, hanno seguito la formazione del personale e l’avviamento.

I venticinquemila euro iniziali sono serviti anche per l’acquisto di pannelli solari e batterie cinesi, più a buon mercato. Raccontano che da gennaio 2014 il laboratorio è autonomo, non riceve più soldi. Le donne trasformano e confezionano sei quintali di prodotti al mese: miglio, cuscus, farina di grano, bevande a base di cereali. E incassano ciascuna uno stipendio di 30mila franchi, quasi 46 euro. Metà viene impiegata per vivere, metà depositata sul conto dell’impresa per la manutenzione dei due congelatori e la sostituzione delle batterie tra tre anni. «Hanno già risparmiato tre milioni di franchi», rivela Paolo Giglio, «sono quattromila 500 euro. Avere quella somma a Makalondi è un grande successo. Non servono costose campagne decise altrove. Occorrono progetti su misura, scelti da chi ne beneficerà. Come hanno fatto le donne di Makalondi. Da anni arrivano da tutto il mondo laureati in diritti umani, antropologia, macroeconomia. Costano tanto e combinano poco. Abbiamo bisogno che ci mandino artigiani, falegnami, fabbri, agricoltori che insegnino il mestiere. Ci vorrebbero tante scuole professionali, come quelle dei salesiani che negli anni Sessanta hanno contribuito a formare gli operai del nostro boom economico».

Tra i progetti a misura di famiglia ce n’è un altro realizzato dall’associazione “Terre solidali” nella zona di Niamey e dalla Ong “Bambini del deserto” di Modena ad Agadez, la porta del Sahara, passaggio obbligato verso la Libia e l’Europa. Si basa sull’intuizione di uno studente di agronomia dell’università di Perugia, Aaron Aboussey Mpacko, 23 anni. Aaron, nato in Camerun e stroncato da un infarto durante una partita di calcio, stava studiando una soluzione che riducesse la distruzione delle foreste per ricavare legna da ardere. Ha così costruito un prototipo semplificato di stufa a gassificazione. Dopo la morte del ragazzo, Stefano Bechis dall’Università di Torino e Paolo Giglio da Niamey hanno portato avanti l’idea.

Oggi 350 famiglie del Niger usano abitualmente stufe Aaron in grado di fornire la stessa energia per cucinare, riducendo però il consumo di legna del 75 per cento. Sono grandi quanto un bidone, larghe poco più di una pentola e sono state costruite da tre fabbri nella bolgia del mercato di Katako, il cuore popolare della capitale.

Il processo di gassificazione non brucia legno, ma estrae gas dalla biomassa dei pellet ricavati dalla macinatura di scarti agricoli ed eventualmente da altra legna. E come residuo fornisce il 30 per cento del peso in carbone vegetale, riutilizzabile in stufe tradizionali oppure come concime. Secondo lo studio dell’Università di Torino, con questo sistema l’attuale fabbisogno annuo di legna in tutto il Sahel basterebbe per quattro anni. Si creerebbero posti di lavoro per la produzione e la commercializzazione delle stufe e del pellet. E si ridurrebbero le malattie respiratorie di donne e bambini poiché la fiamma non produce fumi.

Il passo successivo prevede la piantumazione di alberi, sfruttando il bosco per stabilizzare il suolo e coltivare cereali nella penombra. «Soltanto con la potatura dei rami di cinquanta ettari si potrebbe dare energia a 500 famiglie», spiega Giglio. Si tratta di energia a prezzi accessibili. Costruire una stufa Aaron in Niger richiede 24 euro. Ma grazie a una parte del milione e 100 mila euro finanziati dall’Ue per una rete di interventi, sono state finora vendute a circa 6 euro. «L’Unione Europea ci ha dato fiducia. Con il progetto “Niger Energie” un migliaio di persone delle fasce più deboli mangia in modo adeguato», spiega Laura Alunno, presidente di “Terre solidali”, «e diffonde un modello socioeconomico che si basa sull’associazionismo e sul rafforzamento delle capacità locali. Siamo consapevoli che questi progetti sono una goccia nel mare. L’Africa ha bisogno di infrastrutture e di vendere al miglior offerente le proprie risorse. Se all’Africa venisse data questa opportunità, l’emigrazione si fermerebbe».

La tensione senza precedenti tra governi europei in questi giorni fa assomigliare l’Unione di Jean-Claude Juncker alla fallimentare Società delle Nazioni che accompagnò il pianeta alla Seconda guerra mondiale. Sullo sfondo, il piano militare per bombardare i pescherecci libici potrebbe essere approvato a fine giugno e aprire il Mediterraneo a ulteriori sconvolgimenti.

Non abbiamo nemmeno capito che tutto questo non servirà a nulla se chi parte ha la determinazione di Ebrima Sey, 32 anni, in viaggio con l’idea di trovare un lavoro ovunque in Europa. Il suo obiettivo è sfamare la moglie e il figlio Wally, 2 anni, rimasti ad aspettare a Serekunda, la principale città del Gambia. È partito da 34 giorni e alle tre del pomeriggio scende alla stazione degli autobus a Niamey. Con Ebrima, ecco altri 76 emigranti di Gambia, Senegal, Mali, tutti con l’intenzione di andare in Libia. E poi in Italia. Ebrima indossa la maglia della nazionale francese, numero di Zidane sulla schiena e un solo zainetto come bagaglio, il flacone di shampoo, l’asciugamano, le ciabatte di gomma, il diploma dell’istituto tecnico per “saldatori metalmeccanici” e il certificato della polizia di Banjul da cui risulta che è libero da denunce e condanne.

Lui è certo che gli serviranno in Europa. «Sono partito», racconta, «perché mia moglie mi chiedeva soldi per comprare cibo e io senza un lavoro stabile non ne avevo». Come paga il viaggio? «Ho venduto il mio motorino e ho un numero di telefono per chiamare chi mi manda i soldi. È mio cugino». Come lo rimborserà? «Quando lavorerò in Italia, lo rimborserò». Ha conoscenti già sbarcati in Italia? «Conosco nove gambiani già arrivati in Italia». Ha paura dei pericoli del deserto? «No». Sa che c’è una guerra in Libia? «Sì». Non ha paura di essere sequestrato o ucciso in Libia? «No». Ha saputo delle migliaia di morti annegati tra la Libia e l’Italia? «Sì, avevo un piccolo computer. L’ho visto su YouTube». Non ha paura che possa capitare anche a lei? «No, non ho paura perché ho fede. So che Dio mi guiderà».

La sua sicurezza vacilla solo sulle informazioni pratiche del viaggio. In quanti giorni si aspetta di arrivare in Italia? «Tre, quattro settimane», risponde Sey con eccessivo ottimismo. Quanto pensa di pagare per arrivare in Europa? «Duecento, trecento euro». I libici chiedono milleseicento dollari americani per attraversare il mare. «Per arrivare in Italia?», domanda lui. Sì. «Non lo sapevo». Guarda a lungo nel vuoto. «Però in Libia potrò lavorare per mettere da parte i soldi», dice subito dopo. E quando si aspetta di rivedere suo figlio? Davanti a obiettivi così forti come il sostegno alla propria famiglia, i sentimenti vengono pigiati in fondo al cuore dagli imperativi che la mente si impone. La domanda è involontariamente intima. Gli occhi di Ebrima cominciano a luccicare. Poi esplodono come il crollo di una diga in un pianto inconsolabile. Stanotte che doveva essere l’ultima, prima di raggiungere il deserto, ha parlato al telefono con sua moglie. E sfinito, sdraiato su un tappeto di plastica della stazione, si è addormentato con il cellulare in mano. Gliel’hanno rubato con tutti i contatti registrati in memoria per continuare il viaggio.

Il Gambia, 172esimo Paese su 187 per indice di sviluppo, nel 2014 ha dato all’Italia 8.556 richiedenti asilo. Quest’anno sono 3.115 i connazionali di Ebrima già arrivati: il sesto gruppo dopo Eritrea, Mali, Nigeria, Somalia, Siria e davanti a Senegal e Sudan. Il presidente del Gambia, Yahyah Jammeh, un ex militare al potere dal 1994, ha fatto parlare di sé un mese fa promettendo di tagliare la gola ai giovani che si dichiarano gay. L’Unione Europea, che l’ha sostenuto nel suo piano di privatizzazioni da fare invidia a Henry Ford, sei mesi fa gli ha tolto i finanziamenti. Il disastro economico all’inseguimento di una crescita squilibrata del Pil, che nel 2014 era al 4,6 per cento, è arrivato quest’anno con un meno 1,4. Come sempre, paga il popolo.

Probabilmente nelle prossime settimane vi spalmerete sulla pelle il biossido di titanio estratto a tonnellate dalle sabbie del Gambia: è la protezione bianca contenuta nelle creme solari. Stiamo parlando del più piccolo Stato dell’Africa continentale: un milione 970 mila abitanti appena, compresi i minori sotto i 15 anni che sono il 46 per cento. Gli adulti in Gambia parlano quasi tutti inglese.

Non perché si siano iscritti al British Institute per corrispondenza. Ebrima Sey e i suoi connazionali lo parlano perché fino al 1965, un anno prima della nascita dell’attuale premier David Cameron, il Gambia era parte del Regno Unito. Con le dovute proporzioni, la stessa storia si ripete in Mali: colonia francese fino al 1960, 176esima posizione per indice di sviluppo, Paese ora spaccato in due dopo che la Francia è intervenuta per fermare le milizie di Al Qaeda e ha consegnato il Nord a un’altra fazione di terroristi tuareg. E si ripete in Niger: colonia di Parigi fino al 1960, abitanti raddoppiati in quindici anni fino agli attuali 19 milioni 268 mila, il Paese all’ultimo posto nel mondo per l’indice di sviluppo umano, nonostante l’uranio nigerino estratto a costi irrisori dall’azienda statale francese Areva. L’uranio che parte da qui accende un terzo dell’energia elettrica prodotta in Francia: un ospedale su tre, un treno su tre, un’industria su tre, una lampadina su tre. Mentre in Niger il 93 per cento degli abitanti non ha accesso all’elettricità. E anche dove c’è, spesso non arriva.

Stanotte, come ieri notte, la temperatura martella le tempie. Sembra di vivere nella “Febbre” di Wallace Shawn. L’aria si appiccica al sudore. Un amico medico dell’Ospedale nazionale rivela che quando manca la corrente e i ventilatori appesi ai soffitti si fermano, tra gli anziani e i bambini ricoverati si muore a grappoli. Muoiono di caldo, di complicazioni. Anche adesso, dice il medico, nell’ennesima notte di questa capitale senza luce. Nelle stesse, identiche ore in cui a Parigi il presidente François Hollande dichiara che la fuga da questo inferno, dove ancora si parla francese, è un problema che non lo riguarda.



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