Quel filo spinato sul nostro cuore

Quel filo spinato sul nostro cuore

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DUE lezioni utili. La prima: investire in reticolati e fili spinati, il futuro è là. La seconda: con i muri di cinta, regolarsi come con le statue dei tiranni deposti, che vanno bensì abbattute durante le rivolte, ma avendo cura di salvarne gli stivali, che torneranno buoni per i tiranni in entrata. Economia. Così i muri.
ERANO drizzati, non so, al confine fra Bulgaria e Turchia, 160 chilometri, per impedire di evadere dal paradiso del socialismo reale all’occidente capitalistico. Fu una festa demolirli, e però, appena una ventina d’anni dopo, ecco che bisognava rifabbricarli, tali e quali, gli stessi 160 chilometri, gli stessi miliziani armati ogni cento metri, gli stessi usurpati cani lupo, solo che ora devono stare voltati dal lato opposto, e mirare, invece che ai fuggiaschi da qui a là, ai fuggiaschi da là a qui. Adesso tocca all’Ungheria. La repubblica parlamentare ungherese esiste perché crollò la cortina di ferro e fu smantellato il muro di Berlino: gran festa, ciascuno fratello di ciascuno. Ventisei anni dopo, annuncia di voler edificare un muro che la metta al sicuro dall’arrivo degli appestati alla frontiera meridionale con la Serbia: siriani, afghani, pakistani, iracheni… La Grecia ha a nordest un confine di 200 chilometri con la Turchia, segnato in gran parte dal fiume Evros: troppo facile da varcare dagli appestati provenienti dal lontano oriente e dall’oriente vicino, sospinti dai turchi. Non bastando il fiume (nemmeno il mare costellato di isole e scogli, così che tenta la traversata come saltando dall’uno all’altro) il governo greco aveva scavato un fossato, troppo costoso, e poi anche qui la barriera di filo spinato e reticolato. (Il nuovo governo ha allentato la stretta). La Grecia fu infatti la prima a pagare il conto dell’estorsione di Dublino 2. Il muro – metà reticolato, metà prefabbricato tra Marocco e l’enclave spagnola di Melilla ha regalato al mondo l’immagine splendida che nessuna regia avrebbe saputo comporre: i fuggiaschi appollaiati sulla cima dell’alta barriera, a cavalcioni, variamente in bilico, mentre di sotto sul curatissimo green si gioca una partita amatoriale – femminile – di golf, sicché piuttosto che tentati migranti sembrano spettatori abusivi, che non vogliano pagare il biglietto ma non rinuncerebbero ad assistere al torneo.
Ogni tanto – anche nella fotografia – uno di quei golfisti perde l’equilibrio e cade, o di qua o di là, in Africa o in Europa, spacciato in ogni caso. C’è anche un poliziotto che sta arrampicandosi sul bordo della recinzione, si distingue, più che per la divisa e il casco, perché lui ha usato una lunga scala: non so che cosa farà, una volta arrivato, se striscerà a dare martellate sulle dita degli appollaiati, o che altro. Ogni tanto, del resto, la polizia spagnola apre il fuoco, per sbrigarsi meglio. Le giocatrici sono indifferenti a quel contorno, magari lusingate, ma deplorarlo è altrettanto futile che deplorare i bagnanti sulla spiaggia accanto ai corpi degli annegati: la vita continua, e anche chi non si trovi così vicino agli invasori, vivi o morti, ne deve sentire il fiato addosso. Dunque i muri, che vengano a separarci dai vivi e dai morti. Siamo strani, noi umani, coi muri. In Israele, Eretz Israel, santa di tutte le santità, si sta schiacciati fra due muri: l’avanzo solenne del muro occidentale detto del pianto , e il muraglione che striscia come un serpente dentro la Palestina e vuole proteggere gli uni e soffocare gli altri. I muri sono incolpevoli, e diventano belli e amichevoli quando rovinano, e servono a passeggiarci sopra o attorno, come nelle mille nostre città cintate, e per sovrappiù torrite all’interno, che ciascuna famiglia e ciascun palazzo doveva guardarsi dall’odio e la sfida del vicino. Ci stiamo tornando. La Lega Nord, quando era genuina, e le sparava abominevoli non per calcolo impudente, come oggi, ma per sentita sordidezza, quando scriveva sui muri Forza Etna, Forza Vesuvio, discuteva dove andasse costruita la Muraglia padana, se sopra o sotto Bologna. Il capo di una Lega Ticinese – è morto – voleva un muro di 4 metri d’altezza e 40 centimetri di spessore che tenesse gli svizzeri veri (c’è sempre qualcuno che ti guarda dal nord al sud) al riparo dai frontalieri padani.
Giorni fa c’è stata a Bruxelles una commemorazione di Alexander Langer – il vero ispiratore dell’enciclica di Francesco sull’ecologia, credetemi – a vent’anni, il prossimo 3 luglio, dal suicidio. Il presidente Martin Schulz ha voluto descrivere il mutamento d’atmosfera del parlamento europeo dal tempo di Alex – e del suo amico ed estimatore Otto d’Asburgo – a oggi: quando si può sentire un deputato dire in aula che «in fondo, anche gli zingari possono essere considerati esseri umani», quando si può sentire un primo ministro dell’Unione auspicare il ritorno alla pena capitale. Ieri l’Ungheria di Viktor Orbán ha avuto gioco facile. Mentre in Europa si chiacchiera, ha detto, noi tiriamo su il nostro muro. Del resto, nessuna legge lo proibisce, e non facciamo che seguire quello che tanti altri hanno già realizzato. Il muro del Messico non è il muro di Berlino, non separa due superpotenze, non verrà smantellato in una grande sera liberatrice né venduto a prezzi d’amatore mattone per mattone, ma corre per 3200 chilometri, ha la sua sequela di croci e le sue migliaia di morti.
Poveri muri: li guardi alzarsi, e li vedi già abbattuti. Ci sono muri domestici, che servono a coprire dalle intemperie e unire a una tavola e rendere affabili le voci: siano benedetti, e benedette le loro reliquie, ad Aleppo e a Kobane, a Donetsk e a Ramadi. Ci sono muri superbi, che servono a esaltare la potenza, e a tener fuori dal regno i proscritti. Siano maledetti i loro committenti e ingegneri. Ci sono muri di lazzaretti, per chiudere gli appestati. Ecco che alcuni si credono sani e minacciati dal contagio, e si chiudono loro dentro muraglioni di lazzaretto, per tener fuori il mondo di appestati che sale come una marea. Un giorno i figli dei figli si arrampicheranno su quei muri di ruggine, per guardare che cosa c’è di là, perché si sentiranno soli. “Senza riguardo senza pietà senza pudore mi drizzarono contro grossi muri./Adesso sono qua che mi dispero. Non penso ad altro: una sorte tormentosa;/con tante cose da sbrigare fuori! Mi alzavano muri, e non vi feci caso./ Mai un rumore una voce, però, di muratori. Murato fuori del mondo e non vi feci caso”.


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1 comment

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  1. Sergio
    Sergio 20 Giugno, 2015, 13:57

    È proprio vero che i muri,oltre che fuori, si stanno sempre più edificando nei cuori.
    Ma dove siamo finiti tutti noi, che invadevamo le piazze quando l’ingiustizia colpiva qualche popolo nel mondo ?
    Come mai le nostre voci restano mute, anche se nei nostri cuori siamo sommersi da tristezza e indignazione?
    Molti di noi, certo, fanno, non parlano ma si danno a volontariato, a solidarietà pratica, ma questo non toglie che non ci sentono. Non ci siamo!
    Siamo divisi. Spariti!
    Intanto succede di tutto sotto i nostri occhi, forse, in questo momento storico, stanno accadendo atrocità e ingiustizie, pari, se non addirittura maggiori, di quelle che hanno ammorbato il secolo scorso.
    Bisognerebbe tornare ad essere una unità di persone che credono più nel ” collettivo” che all’individuale, ancora capaci di non resistere al richiamo dell’indignazione, impossibilitati dal proprio stomaco a girare lo sguardo.
    Se questo continua a non succedere, forse, anche nei nostri cuori si sono elevati i muri.
    Ma mi auguro di no!

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