Erdo­gan manda la polizia a reprimere la rabbia

Erdo­gan manda la polizia a reprimere la rabbia

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«Mas­sa­cro del governo a Suruç»: un car­tello rosso retto da un mani­fe­stante, lunedì a Istan­bul, dà la misura della rab­bia per il mas­sa­cro di 32 gio­vani nella città al con­fine con la Siria. Asso­cia­zioni, atti­vi­sti, par­titi poli­tici di oppo­si­zione, ne sono con­vinti tutti: la respon­sa­bi­lità di quella strage è nelle mani dell’Akp. E non solo in quelle del kami­kaze che si è fatto esplo­dere in mezzo ai gio­vani in festa.

I primi rap­porti par­la­vano di una gio­vane donna, ma ieri i media tur­chi ripor­ta­vano il nome del 20enne turco Abdur­rah­man Ala­göz: la sua carta d’identità, soprav­vis­suta alla deva­stante esplo­sione, è stata tro­vata tra i resti di corpi, zaini, ban­diere, nel cen­tro cul­tu­rale Amara. «Met­tere insieme i pezzi di tutti i cada­veri è un puzzle», ha com­men­tato il pro­cu­ra­tore che sta gestendo i medici forensi sul luogo dell’attacco. Sono loro ad aver indi­vi­duato quella carta d’identità. Potrebbe essere lui, resi­dente nella pro­vin­cia sud-orientale di Adiya­man, l’attentatore sui­cida: si sarebbe unito all’Isis due mesi fa.

Le auto­rità tur­che hanno fretta. Devono dare in pasto all’opinione pub­blica qual­che risul­tato con­creto per evi­tare di essere inve­stite dalla certa ondata di cri­ti­che e accuse. Il pre­mier Davu­to­glu, brac­cio destro di Erdo­gan, si è recato in ospe­dale a far visita ai feriti e pro­messo di raf­for­zare la sicu­rezza al con­fine. Ma agli occhi dei kurdi e dei tur­chi la vera rispo­sta del governo la si è vista lunedì sera a poche ore dall’attacco: i lacri­mo­geni della poli­zia con­tro le decine di migliaia di per­sone scese in piazza a Istan­bul, in piazza Tak­sim, e ad Ankara, Izmir, Diyar­ba­kir. Due i feriti, col­piti dal fuoco della poli­zia, a Mersin.

A sud, a Gazian­tep un’enorme folla ha ono­rato le 32 vit­time ai fune­rali: le bare sono state coperte con la ban­diera del Kur­di­stan. Alcune di quelle vit­time avreb­bero potuto essere evi­tate: è l’accusa mossa dalla diret­trice del cen­tro cul­tu­rale Amara, Zehra Yanar­da?. All’agenzia stampa indi­pen­dente Diha rac­conta di aggres­sioni della poli­zia con­tro la folla in fuga dopo l’esplosione: «La poli­zia è arri­vata prima delle ambu­lanze. I carri armati chiu­de­vano le strade e loro tira­vano lacri­mo­geni. Non pote­vamo respi­rare. Molti feriti sono morti là».

Accuse da pro­vare ma che non fanno che accen­dere la rab­bia: «Il mas­sa­cro è tanto più orri­bile per­ché è parte di un più vasto piano di rom­pere la soli­da­rietà tra tur­chi (le vit­time sono parte di un gruppo socia­li­sta turco) e kurdi». Al tele­fono con il mani­fe­sto l’attivista kurda turca Burcu Çiçek Sahinli non rie­sce a trat­te­nersi, parla con­ci­tata, ancora sotto choc: «Non solo: è parte del piano di entrare in Siria per creare una ‘zona sicura’. Lo Stato turco farebbe di tutto per ucci­dere la rivo­lu­zione di Rojava e impe­dire uno sta­tus di auto­no­mia ai kurdi siriani. Guar­date cosa è suc­cesso ieri [lunedì, ndr]: la poli­zia ha attac­cato nume­rose mani­fe­sta­zioni com­presa quella di Istan­bul, par­te­ci­pa­tis­sima, decine di migliaia di persone».

Lacri­mo­geni, man­ga­nelli, can­noni ad acqua: così si è con­clusa la grande pro­te­sta. Isti­klal Ave­nue era piena di gente, ban­diere rosse e car­telli che accu­sa­vano il governo di Ankara della strage. Ma le accuse non arri­vano solo dalla strada: il mondo poli­tico è in fibril­la­zione. Anche i kema­li­sti del Chp, ancora inde­cisi se unirsi in coa­li­zione con Erdo­gan, ieri hanno pun­tato il dito con­tro le peri­co­lose azioni dell’intelligence turca in Siria. Lo dice anche l’ex mini­stro degli Esteri del pre­si­dente: per Yasar Yakis la radice va cer­cata nell’«oltraggiosa inter­fe­renza turca» negli affari siriani.

Denunce da far tre­mare la terra sotto ai piedi al novello sul­tano Erdo­gan, ancora alla cac­cia di una solu­zione al risul­tato tra­bal­lante delle ele­zioni del 7 giu­gno. Per non par­lare delle oppo­si­zioni: l’Hdp non ha rispar­miato dichia­ra­zioni al vetriolo. Il lea­der Demir­tas ha chie­sto ieri una ses­sione par­la­men­tare straor­di­na­ria per trat­tare la que­stione dell’interferenza turca in Siria e una mani­fe­sta­zione di massa nel fine set­ti­mana. Ha poi chiuso riget­tando la richie­sta di Erdo­gan di una dichia­ra­zione con­giunta anti-terrorismo di tutte le forze poli­ti­che: prima il governo riveli i respon­sa­bili degli attac­chi pre­ce­denti, ha detto Demir­tas, tra cui la bomba al comi­zio di Diya­ra­ba­kir del 5 giu­gno. Poi si vedrà.

Resta lo choc, impos­si­bile da descri­vere, imma­gi­narsi da dige­rire. Burcu lo ripete quasi osses­si­va­mente: «Non importa la nostra etnia, siamo pro­fon­da­mente addo­lo­rati. Ma la soli­da­rietà è tanta. Di sicuro non fer­me­ranno il pro­getto: la mis­sione verso Kobane sarà com­ple­tata». Una mis­sione sem­plice ma – a quanto pare – poli­ti­ca­mente minac­ciosa: i 300 gio­vani riu­niti a Suruç sta­vano orga­niz­zando la con­se­gna di gio­cat­toli e mate­riali per i bam­bini di Kobane. I gio­chi sono ancora là, nel parco devastato.



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