I ragazzi uccisi dalla Jihad e le due verità di un selfie

by redazione | 22 Luglio 2015 8:31

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LA DIDASCALIA originale di questa immagine contiene una terribile frase di undici parole: «La ragazza con la maglietta bianca dietro di me è morta». È quella con il sorriso più esibito, gli occhi una fessura appena, il collo lungo, i capelli ricci sbandati di lato. Quella con le dita a V in segno di vittoria, un anello all’indice. Lei non c’è più. Forse non ci sono più altri che compaiono alle spalle di Madersahi, la ragazza in primo piano che ha scattato il selfie e che ci ha informato, prima di quelle undici parole, di essere ancora viva.
La storia di questa fotografia è esemplare: racconta una piccola distorsione e una grande distrazione. Ha cominciato a rimbalzare sui social qualche ora dopo l’attentato di lunedì a Suruc, in Turchia, nel quale hanno perso la vita (finora) trentadue aderenti alla federazione dei giovani socialisti. Il massacro è stato attribuito allo Stato Islamico, in particolare a una diciottenne kamikaze, seguace del Califfato, di cui pure è stata diffusa l’immagine, che, nera e cupa, non potrebbe essere più differente da quella della «ragazza con la maglietta bianca».
La piccola distorsione è consistita in un equivoco. Per ore sul web il selfie è stato tramandato e condiviso come se fosse scattato pochi istanti prima del botto. Come se quel gruppo di ragazzi festanti ( clic! ) non avessero fatto in tempo a spegnere i sorrisi che ( boom !) i loro corpi, tutti quanti, fossero stati dilaniati.
È un peccato veniale, stupido sensazionalismo, bisogno di estremizzare qualcosa che è già estremo di suo e non meno inaccettabile. Cambia davvero qualcosa sapere che la foto era stata fatta tempo prima, dopo il successo elettorale del partito filocurdo e non alla vigilia di una partenza per Kobane a costruire una biblioteca e un campo giochi? Cambia qualcosa sapere che non sono morti tutti un attimo dopo? Che è viva Madershai, uno di quelli con la barba alle sue spalle e altri ancora? «La ragazza con la maglietta bianca dietro di lei è morta» ed è morta per tutti e con tutti, come il decimo della fila che deve fare un passo avanti verso il fucile. Quando cadono lui o lei cadono tutti, è un domino che non esclude nessuno.
Il tempo è irrilevante se il finale è irreversibile. La foto del turista sulla vetta di una delle torri gemelle con un aeroplano alle spalle è un falso idiota solo perché sincronizza per renderli sensazionali due eventi che sono tremendi anche nella loro separazione: ci sarà stato qualcuno in quel punto qualche minuto prima dell’impatto e sarà morto mentre scendeva, che differenza fa? Che non ha un volto, ne è un ultimo momento in cui possiamo identificarci con lui.
E questa è la grande distrazione. La ragazza con la maglietta bianca ci conduce tutti a Suruc dove, ammettiamolo, non è che i media occidentali ci avessero trascinato con la forza della persuasione.
Utoya, i giovani socialisti norvegesi, di lì eravamo passati. Ma Suruc? Studenti filocurdi? Chi sono questi? Sono la ragazza con la maglietta bianca, così simile a quella che incontri sulle scale, alla nuova fidanzata di tuo cugino o nipote. Da queste parti ci impressionano le stragi di crocieristi europei, non quelle di passanti orientali. Di cristiani, non di sciiti. Ci sarebbe voluto un selfie anche dalla moschea in Kuwait attaccata nello stesso giorno della strage sulla spiaggia tunisina. Una didascalia che dicesse: «L’uomo con la camicia blu dietro di me è morto». E quello, ripreso felice allo stadio, sarebbe stato simile al tuo benzinaio, o a tuo padre quando tu eri ancora un bambino.
Ci vorrebbero decine, centinaia di selfie, da ogni parte del mondo in cui un innocente è stato ammazzato per questo peccato mortale di causa. E ce ne vorrebbe uno scattato con un grandangolo immenso che mostri tutto e tutti, i Campi Elisi e Central Park , la corniche di Beirut e le case di Kobane, i milioni di facce che li abitano e il mondo che dovremmo difendere da ogni timore o sottomissione finché «il ragazzo con la maglietta bianca dietro di te è vivo e lotta».
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