Il crac di Shanghai brucia 2.500 miliardi La Cina rallenta e spaventa il mondo

Il crac di Shanghai brucia 2.500 miliardi La Cina rallenta e spaventa il mondo

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UN tracollo del 32% in tre settimane, 2.500 miliardi di euro di ricchezza distrutta. Il crac della Borsa cinese è un avvertimento serio. Trema paurosamente il mercato finanziario dell’economia che — a seconda delle misurazioni — è la prima o la seconda del mondo. Gli europei occupati dalla loro ossessione monomaniacale sulla Grecia, devono convincersi di non essere l’ombelico del mondo. Può succedere — forse sta iniziando a succedere — qualcosa di ben più grave della Grexit. La ricchezza distrutta in Cina in queste tre settimane, secondo i calcoli dei trader di Hong Kong, vale 11 volte il Pil della Grecia e 6 volte il suo debito pubblico. E in prima linea tra le possibili vittime c’è la più forte economia europea: la Germania, prima esportatrice verso la Cina, e unico paese avanzato a godere di una bilancia commerciale attiva con Pechino, è la più esposta ad una crisi di quel mercato. Se si ammalasse davvero la Cina le conseguenze sarebbero di un ordine di grandezza multiplo rispetto al default greco e le beghe Merkel-Tsipras passerebbero rapidamente in secondo piano.
La giornata di panico che ha vissuto ieri il mercato di Shanghai, con il 40% dei titoli sospesi dalle contrattazioni, è giunta al termine di un anno folle. Nei dodici mesi precedenti al 12 giugno quella stessa Borsa aveva più che raddoppiato la sua capitalizzazione. C’erano tutte le caratteristiche di una super-bolla speculativa, con valutazioni folli, irrealistiche soprattutto per le società medio-piccole. Un’aggravante della febbre speculativa cinese: è stata un fenomeno di massa, che ha visto come protagonisti centinaia di milioni di piccoli risparmiatori. Molti dei quali non hanno esitato a speculare a debito, facendosi prestare soldi dalle banche alle quali offrivano come garanzia gli stessi titoli acquistati. Una spirale viziosa, un meccanismo infernale che è antico quanto la storia delle Borse: lo ha descritto tra i primi nel romanzo “Il denaro” lo scrittore francese Emile Zola nel 1891.
Tanto più pericolosa, questa speculazione fondata sui debiti, lo diventa se viene adottata con l’entusiasmo dei neofiti nel paese più popoloso del mondo, con 1,3 miliardi di abitanti, un motore trainante della globalizzazione nel XXI secolo. Nel momento in cui la bolla si sgonfia, come sta accadendo nelle ultime tre settimane, le ricadute si possono ramificare in più direzioni, con effetti micidiali. C’è un effetto-ricchezza — al contrario — perché di colpo una quota della popolazione cinese si sente depauperata nei risparmi, e quindi può essere costretta a tagliare i propri consumi. Ci possono essere tensioni sociali e politiche, con risposte imprevedibili da parte di un regime autoritario e di un leader come Xi Jinping che ha accentrato su di sé un potere senza precedenti dai tempi di Deng Xiaoping. Tutto questo può ripercuotersi in ondate di sfiducia nel resto del mondo.
Le prime risposte venute dal governo di Pechino non ispirano ottimismo. Proprio per paura del malcontento popolare, il regime sta facendo di tutto per rinviare, rallentare e attutire lo scoppio della bolla. Pessimo atteggiamento perché interferisce con la necessaria operazione di verità e pulizia su un mercato impazzito, lo droga con iniezioni di aiuti pubblici, ne ritarda il risanamento. Pechino ha manovrato tutto l’armamentario dei possibili interventi statali a sostegno della Borsa — come se fosse compito di un governo manipolare i prezzi delle azioni. Ha tagliato in fretta e furia il costo del denaro. Ha spinto i maggiori broker di Shanghai a unirsi e a creare un fondo per l’acquisto di azioni (20 miliardi). Ha finanziato con le riserve della banca centrale questi acquisti. Ha criminalizzato i ribassisti e chi diffonde voci negative.
Queste madornali e goffe interferenze creano a loro volta due perversioni. Una si chiama “moral hazard”: se gli speculatori si convincono che il governo li protegge, saranno ancora più scriteriati. L’altro danno è la protratta opacità del sistema finanziario cinese, costruito su bilanci, regole e controlli tutt’altro che affidabili. La finanza ombra è da anni uno dei punti deboli del boom cinese. Ora i nodi vengono al pettine, anche perché si è accumulato un eccesso di investimenti “politici”: cattedrali nel deserto, grandi opere, volute dai potentati locali della nomenclatura comunista, per ragioni di prestigio e di potere, ma spesso fonti di debiti irrecuperabili per il sistema bancario.
Il sisma che colpisce la Borsa di Shanghai coincide con un periodo già problematico per la superpotenza dell’Estremo Oriente. La crescita rallenta, quest’anno sarà “solo” del 7% del Pil. Un ritmo fantastico se giudicato con gli occhi degli occidentali, ma un rallentamento netto per un paese che si era abituato a crescere del 10%. La frenata cinese ha già messo in crisi tutto il sistema dei Brics e molti altri paesi emergenti: dall’America latina all’Africa, dal sudest asiatico all’Australia, vaste aree del pianeta si erano agganciate alla Cina vendendole materie prime, minerali, derrate agricole. In Europa l’alta tecnologia tedesca e il lusso made in Italy erano fra i settori beneficiati dal boom cinese. Ora tutti devono rivedere al ribasso gli scenari, almeno per quanto riguarda il traino della domanda che veniva da Oriente.
Questo è anche il primo test serio per la leadership di Xi Jinping, un presidente che gli occidentali hanno studiato poco. Un personaggio ben più autoritario dei suoi predecessori. Carismatico, nazionalista, populista. Circondato dall’ammirazione di tanti suoi concittadini, per avere lanciato una vasta campagna anti- corruzione. Ma ora il ceto medio parsimonioso che ha creduto alle favole della ricchezza facile in Borsa, si rivolge verso Xi aspettando il miracolo.


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