La favola delle opposte democrazie

La favola delle opposte democrazie

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Tra i nume­rosi argo­menti messi in campo con­tro il governo di Atene e i suoi sforzi per non sot­to­stare ai dik­tat della Troika, ve ne è uno tanto inde­cen­te­mente sofi­stico quanto ampia­mente dif­fuso. Con poche varianti il ragio­na­mento fun­ziona pres­sa­poco così: è indub­bio che la popo­la­zione greca si sia demo­cra­ti­ca­mente espressa con­tro le poli­ti­che di auste­rità impo­ste dalla gover­nance euro­pea. Tut­ta­via anche i restanti mem­bri dell’Unione sono delle demo­cra­zie (seb­bene di qual­cuno, come l’Ungheria, sarebbe lecito comin­ciare a dubi­tare) cosic­ché il pro­nun­cia­mento di Atene non può in nes­sun modo pre­va­lere sulla volontà espressa, con il tra­mite dei loro governi, da que­ste democrazie.
Si applica insomma quel prin­ci­pio che Stuart Mill poneva a fon­da­mento della sua idea di libertà, la quale avrebbe ces­sato di essere legit­tima lad­dove risul­tasse di osta­colo alla libertà altrui. La spe­ciosa incon­si­stenza di una sif­fatta tra­spo­si­zione salta subito agli occhi.

In che modo il refe­ren­dum greco possa minac­ciare l’ordinamento demo­cra­tico di altri stati euro­pei resta un mistero della fede. Fatto sta che que­ste demo­cra­zie non sono mai state chia­mate ad espri­mersi sulle poli­ti­che di auste­rità che avreb­bero dovuto subire o imporre a se stesse e ad altri. E di certo, nella loro pro­pa­ganda elet­to­rale, i par­titi in lizza in que­sti paesi si sono sem­pre pro­di­gati nello smi­nuire i sacri­fici richie­sti e nell’enfatizzare le pro­messe, per­lo­più assai vacue, di cre­scita. Una volontà demo­cra­tica in favore dell’austerità o dell’iscrizione del pareg­gio di bilan­cio nelle Carte costi­tu­zio­nali non è mai stata regi­strata (men che meno nell’Italia al suo terzo governo non eletto). Tanto è vero che que­ste scelte sono sem­pre state pre­sen­tate all’opinione pub­blica non come un pos­si­bile oggetto di scelta demo­cra­tica, ma come vin­coli esterni: «Ce lo chiede l’Europa», intesa in que­sto caso come una entità sovraor­di­nata ai pro­cessi demo­cra­tici, come regola astratta sca­tu­rita da mec­ca­ni­smi imperscrutabili.

Le “riforme strut­tu­rali” in Gre­cia ci ven­gono invece pre­sen­tate come un biso­gno impel­lente dei cit­ta­dini euro­pei e una espres­sione della loro volontà demo­cra­tica. Il vero pro­blema che il governo di Atene ha posto all’Europa è infatti quello della demo­cra­zia, per una volta appli­cata non agli spet­tri della rap­pre­sen­tanza ma alle con­di­zioni mate­riali di vita di una intera popo­la­zione. Una simile appli­ca­zione rischie­rebbe di strap­pare le demo­cra­zie euro­pee ai governi che oggi, “per il loro bene” le ten­gono al guin­za­glio. Quale sia il peri­colo lo espli­cita senza mezzi ter­mini un gior­na­li­sta di Spie­gel on line (ma di scuola ultra­con­ser­va­trice): «Se qual­cuno aveva ancora biso­gno di una prova di quanto siano peri­co­losi i pro­nun­cia­menti popo­lari è ser­vito. La Gre­cia mostra una volta di più che i refe­ren­dum, ossia la regi­stra­zione con­tin­gente della volontà popo­lare, non pro­du­cono auto­ma­ti­ca­mente i migliori risul­tati» (Roland Nel­les). Sia pure. Sarà anche vero che gli elet­tori tede­schi, per quanto dan­neg­giati nei loro livelli di vita ben più dall’ossessione com­pe­ti­tiva e accu­mu­la­trice del governo di Ber­lino che non dal debito greco, vote­reb­bero l’immediata espul­sione di Atene dall’eurozona. Ma un conto è pro­nun­ciarsi per un’ideologia che ammicca alla supe­rio­rità nazio­nale (non è una novità che dalle urne pos­sano uscire governi o pro­nun­cia­menti mostruosi), un altro com­bat­tere per la pro­pria sopravvivenza.

Ma in spre­gio a qua­lun­que ragio­ne­vole valu­ta­zione della realtà, la favola delle 19 demo­cra­zie su un piede di parità cir­cola senza rite­gno. Baste­rebbe doman­darsi per­ché solo alcuni par­la­menti o solo alcune Corti costi­tu­zio­nali e non altre abbiano il diritto di rati­fi­care o di boc­ciare accordi e poli­ti­che di por­tata euro­pea, per uscire da que­sta ridi­cola pan­to­mima. Pos­siamo facil­mente imma­gi­nare quanto con­te­rebbe l’opinione dei paesi bal­tici se non dovesse coin­ci­dere con quella di Berlino.

La crisi greca ha por­tato in luce le peg­giori pul­sioni ali­men­tate dalle poli­ti­che gover­na­tive in Europa. Prima tra tutte quel “risen­ti­mento” con­si­de­rato da sem­pre un cavallo di bat­ta­glia della dema­go­gia popu­li­sta. Da Madrid a Lisbona si leva la pro­te­sta: per­ché i greci (comun­que già mas­sa­crati dai memo­ran­dum) dovreb­bero essere esen­tati da ciò che noi abbiamo dovuto accet­tare, rischiando il nostro con­senso elet­to­rale? Domanda accom­pa­gnata dalla messa in scena di una pre­sunta “uscita dalla crisi” che, con certi tassi di disoc­cu­pa­zione e povertà, è dav­vero inde­cente per­met­tersi. O la recita da Kin­der­gar­ten che rap­pre­senta i risparmi dei con­tri­buenti tede­schi, nella più totale inno­cenza del sistema finan­zia­rio, fluire nelle tasche degli sfac­cen­dati greci che se li godono alla loro faccia.

L’atmosfera greca della crisi in corso ha pro­vo­cato un’alluvione di sbia­diti ricordi sco­la­stici. Ma forse uno sarebbe per­ti­nente, non tanto per quel con­flitto tra le ragioni della forza e quelle della giu­sti­zia che lo ha reso esem­plare, ma per quello, col­la­te­rale, tra gover­nanti e gover­nati. Si tratta del cele­bre dia­logo tuci­di­deo tra i melii e gli ate­niesi. I primi chie­de­ranno ai messi di Atene di par­lare solo di fronte agli oli­gar­chi e gli stra­te­ghi e non di fronte a tutto il popolo che avrebbe potuto cadere preda dell’abile reto­rica ate­niese. Poco importa che l’oligarchia si dispo­nesse, in quel fran­gente, a respin­gere il dik­tat della potenza di Atene andando incon­tro a una cata­strofe. Ciò che conta è che il popolo doveva essere tenuto fuori da ogni decisione.

A parti inver­tite, schie­ran­dosi con­tro il dik­tat di Bru­xel­les, Tsi­pras ha fatto la scelta oppo­sta. Forse l’unica in grado di scon­giu­rare una catastrofe.



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