Dove trova consenso il nazio­na­li­smo tedesco

by redazione | 6 Agosto 2015 9:54

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Pochi giorni fa, incon­trando for­tu­na­ta­mente una dif­fusa resi­stenza, la Con­fin­du­stria tede­sca chie­deva di supe­rare il limite di 8 ore della gior­nata lavo­ra­tiva, in nome della fles­si­bi­lità. E’ il segno ine­qui­vo­ca­bile di come la dot­trina della com­pe­ti­ti­vità non con­tem­pli alcun prin­ci­pio di equi­li­brio o di auto­re­go­la­zione. Non da ieri, nume­rosi eco­no­mi­sti sot­to­li­neano come l’avanzo com­mer­ciale e di bilan­cio tede­sco (8 per cento del Pil quest’anno) costi­tui­scano per l’Europa un pro­blema ben più serio del debito greco. L’eccesso di rispar­mio comin­cia a pre­oc­cu­pare per­fino i ver­tici della Deu­tsche Bank.

Come è pos­si­bile che una eco­no­mia fio­rente si arroc­chi nel respin­gere qual­siasi ripresa della dina­mica sala­riale, qual­siasi miglio­ra­mento dei diritti e dei red­diti del lavoro pre­ca­rio, qual­siasi ripresa della spesa pub­blica, tali da ridurre i for­tis­simi squi­li­bri che afflig­gono il Vec­chio con­ti­nente, oltre a miglio­rare il livello di vita dei tede­schi? A par­tire da que­sta domanda, in molti lamen­tano un anti­ger­ma­ne­simo di comodo che impu­te­rebbe a Ber­lino ciò che in realtà è l’essenza del capi­ta­li­smo glo­bale. La Ger­ma­nia, insomma, sot­to­stà, sia pure con qual­che eccesso di zelo e qual­che spe­ci­fica osses­sione, alle leggi del neo­li­be­ri­smo, non le crea.

Il peri­colo non pro­ver­rebbe dun­que da una ripresa del nazio­na­li­smo tede­sco (del tutto evi­dente nei toni del dibat­tito pub­blico in Ger­ma­nia) ma dalla dit­ta­tura dei mer­cati. Inu­tile pren­der­sela con una pre­sunta voca­zione sto­rica della Ger­ma­nia al comando. Se que­sta affer­ma­zione non teme smen­tite defi­ni­tive, essa con­tiene tut­ta­via una inge­nuità e un peri­colo. La prima con­si­ste in una idea del tutto astratta e disin­car­nata del mer­cato (dimen­tica del fatto che quest’ultimo è un rap­porto sociale con le sue espres­sioni poli­ti­che) che non esi­ste­rebbe nelle forme attuali senza i suoi inter­preti “sovrani”, i suoi guar­diani e i suoi retori. Il suc­cesso di pub­blico della poli­tica teu­to­nica in Europa deriva dall’aver con­vinto i cit­ta­dini tede­schi a con­si­de­rarsi in primo luogo “azio­ni­sti” del mini­stero gui­dato da Wol­fgang Schaeuble.

Il secondo risiede nell’insidiosa illu­sione che la sovra­nità nazio­nale (e dun­que il nazio­na­li­smo che fre­quen­te­mente ne discende) possa essere con­trap­po­sta alla glo­ba­liz­za­zione capi­ta­li­stica, sia pure come argine par­ziale. L’illusione river­bera sulla que­stione della moneta distin­guendo tra paesi con la voca­zione all’export e paesi orien­tati al mer­cato interno. Gli uni favo­riti, gli altri svan­tag­giati dalla moneta unica. Fatto sta che non si tratta affatto di “voca­zioni”, o di “carat­teri nazio­nali”, ma di rap­porti di forza tra le classi che non dipen­dono dall’appartenenza o meno all’Unione euro­pea e dai suoi trat­tati, come dimo­stra, per esem­pio, l’esplosione dell’export made in China con le con­di­zioni poli­ti­che e poli­zie­sche che la hanno resa possibile.

Il nazio­na­li­smo tede­sco, dun­que, è una delle con­di­zioni del mec­ca­ni­smo di accu­mu­la­zione in Europa, tanto è vero che esso è per­fino in grado di ripro­porsi in una ver­sione più fede­rale e inte­grata, che ha tra i suoi pro­mo­tori lo stesso Wol­fgang Schaeu­ble, a con­di­zione che la gover­nance venga messa al riparo da qua­lun­que inter­fe­renza di carat­tere demo­cra­tico e si attenga stret­ta­mente alle regole date. Regole sal­da­mente radi­cate nella tra­di­zione ordo­li­be­rale tede­sca. Que­sta forma di inte­gra­zione saprebbe avvan­tag­giarsi, inol­tre, di uno sfol­ti­mento dell’unione mone­ta­ria senza nes­suna per­dita signi­fi­ca­tiva di ege­mo­nia o di sovra­nità, con­ti­nuando a con­di­zio­nare pesan­te­mente le eco­no­mie euro­pee sospinte ai mar­gini dell’eurozona.

In que­ste con­di­zioni un “atter­rag­gio mor­bido” fuori dalla moneta unica non è che il sogno mal­sano dei nostal­gici della sovra­nità nazio­nale. Il para­ca­dute non si aprirà, come il governo di Tsi­pras sem­bra avere intuito per tempo. Del resto, la stessa alter­na­tiva tra la per­ma­nenza nell’euro o l’abbandono volon­ta­rio della moneta unica si pre­senta come una ope­ra­zione di deci­sio­ni­smo gover­na­tivo, estra­neo a qual­si­vo­glia movi­mento di massa, come ci sug­ge­ri­sce l’esigua mino­ranza di greci dispo­sti a uscire dall’euro. La messa in scena di una rivin­cita, del tutto illu­so­ria, della poli­tica sull’economia, nel cui campo e secondo i cui schemi si gioca per intero la partita.

Fuori dall’ euro­zona, non meno che al suo interno, non c’è infatti libertà di azione, c’è il ter­reno minato dell’economia glo­bale. Di fronte alla quale, sulla scala ridotta dello stato nazio­nale (per­fino la Ger­ma­nia è troppo pic­cola per il “grande gioco”), si aprono due strade. O quella di uno sfrut­ta­mento intenso del lavoro e uno sman­tel­la­mento radi­cale dello stato sociale, se pos­si­bile ancor più dra­co­niano di quello pre­teso da Bru­xel­les, ma que­sta volta sotto il segno infetto dell’“orgoglio nazio­nale”, per soste­nere la com­pe­ti­ti­vità, oppure la via del pro­te­zio­ni­smo, dell’isolazionismo, delle poli­ti­che diri­gi­ste di svi­luppo nazio­nale, degli ate­liers nato­naux e del lavoro fit­ti­zio. Per non voler pen­sare a vere e pro­prie derive di natura autarchica.

Da destra e da sini­stra vi sono in Europa diverse ten­denze che sem­brano con­ver­gere verso simili esiti. Gli uni nella spe­ranza di restau­rare un’idea forte di “Nazione”, gli altri nell’illusione che que­sto pas­sag­gio con­duca a una tra­sfor­ma­zione in senso più demo­cra­tico e ugua­li­ta­rio della società. Que­sti ultimi muo­vono da un tra­gico errore di fondo: il socia­li­smo euro­peo non è fal­lito per­ché si è con­ver­tito al neo­li­be­ri­smo, ma si è con­ver­tito al neo­li­be­ri­smo per­ché era fal­lito. Per­ché il modello di stato, di wel­fare, di lavoro, di iden­tità sin­go­lari e col­let­tive che esso pro­po­neva non cor­ri­spon­de­vano più alle aspi­ra­zioni di sog­get­ti­vità sociali pro­fon­da­mente tra­sfor­mate. Se non si parte da que­sto pre­sup­po­sto la par­tita con le pro­messe, sia pur disat­tese, del neo­li­be­ri­smo è irri­me­dia­bil­mente perduta.

E uno stu­dio del Deu­tsches Insti­tut fuer Wir­ts­chaf­tsfor­schung può trion­fal­mente rive­lare che la grande mag­gio­ranza dei lavo­ra­tori tede­schi, anche in con­di­zioni di pre­ca­rietà, bassi salari e scarsi diritti, è ben con­tenta del lavoro che ha. Gli insod­di­sfatti natu­ral­mente esi­stono, ma sono pochi e di cat­tivo carattere.

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