Ecco come l’Is ha distrutto Baal Shamin “ Palmira è l’arma di ricatto dei jihadisti”

Ecco come l’Is ha distrutto Baal Shamin “ Palmira è l’arma di ricatto dei jihadisti”

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«COME vuole che mi senta? Triste, furioso, impotente: dal giorno in cui lo Stato Islamico è entrato a Palmira era evidente che avrebbe fatto questo». Il professor Amr Al-Azm, l’archeologo che per anni ha guidato i laboratori di restauro dei musei statali siriani e ora vive in America, dove insegna alla Shawnee University, commenta così le immagini della distruzione del tempio di Baal Shamin a Palmira, diffuse ieri in rete dall’Is. Immagini dove si vedono i miliziani sistemare l’esplosivo lungo il perimetro del tempio antico di 2000 anni, uno dei meglio conservati al mondo. E poi il fungo dell’esplosione, il tempio ridotto in macerie. «Palmira è un’arma nelle mani dei jihadisti: e per molti motivi. Per loro è una miniera da saccheggiare, una fonte di guadagno: potranno vendersi capitelli, stele votive e i tesori ancora da recuperare lì dove si stavano facendo nuovi scavi. Poi è un’arma di ricatto: perché anche distruggendo dieci templi resta un’intera città molto ben conservata. La useranno a lungo per tormentarci. E poi credo che per loro sia una sorta di assicurazione: lì possono ripararsi dai bombardamenti della coalizione. Chi vorrà assumersi la responsabilità di bombardare quel che lo Stato Islamico non ha già distrutto?».
Proprio nelle stesse ore in cui l’Is si accaniva sull’antico tempio, la famiglia dell’archeologo decapitato pochi giorni prima, Khaled Asaad, è riuscita a mettersi in salvo, raggiungendo la città governativa di Homs, dopo una fuga di sei giorni nel deserto. Da qui il figlio Walid, subentrato al padre nella direzione del museo di Palmira nel 2003, ha raccontato al Times di Londra la sua odissea: «Oro, volevano l’oro. Ci hanno interrogato per giorni chiedendoci dove erano nascosti oro e gioielli antichi. E quando io e mio padre abbiamo insistito che oro a Palmira non ce n’è mai stato, che le missioni archeologiche non hanno mai trovato tesori di quel genere, non ci hanno creduto. Hanno continuato a interrogarci, a chiedere oro, oro, oro…».
Quando ha saputo che i miliziani avevano assassinato il padre, Walid ha caricato moglie, fratelli e la mamma ottantenne su un furgone ed è fuggito, lasciandosi dietro tutto: «Documenti cruciali e il computer con dentro l’archivio del museo, mappe, fotografie e resoconti dettagliati degli scavi in corso». Ora lancia l’allarme: anche se le vestigia del museo sono in salvo, trasferite a Damasco poche settimane prima che l’Is occupasse la città, i segreti di Palmira potrebbero invece essere già finiti nelle mani dei jihadisti.
«Se hanno le mappe dei luoghi dove scavare è un bel problema» dice a Repubblica Amr Al-Azm. «Lì lo Stato Islamico può trovare nuovi reperti da immettere sul mercato nero dell’arte. Opere che non conosciamo e dunque sono più difficili da identificare. Per questo è fondamentale il lavoro dei coraggiosi che sul campo, e in gran segreto, documentano danni e ritrovamenti ». Sì, perché Amr Al-Azm fa parte del team di studiosi che periodicamente va in Turchia per incontrare i Monuments
men siriani, le poche decine di volontari che fanno quel che possono per salvare il patrimonio del Paese. «Sono loro i veri eroi: uomini e donne di entrambe gli schieramenti, che lavorano sia con il regime di Assad che con i ribelli per proteggere i monumenti ». Gli studiosi gli insegnano quel che possono: tecniche di conservazione d’emergenza, spesso sperimentate durante la seconda guerra mondiale. Come quella di avvolgere mosaici e terracotte nel Tyvek, un tessuto sintetico leggero e resistente usato nelle costruzioni, prima di seppellirli o coprirli con sacchi di sabbia.
«Qualcosa siamo riusciti a salvare: penso ai mosaici romani, preziosissimi, conservati all’interno del museo di Ma’arra, vicino ad Aleppo, finito sotto i bombardamenti. Salvi grazie a poche migliaia di dollari di materiale offerto dallo Smithsonian americano». Ora il compito dei volontari si è fatto più difficile e spesso si limita alla mera documentazione. Il traffico di opere d’arte, che secondo una valutazione al ribasso dell’intelligence inglese ha già portato nelle casse dell’Is 1 miliardo e mezzo di dollari, si è raffinato e burocratizzato.
Inizialmente a condirre i traffici erano infatti gli stessi razziatori: a patto di pagare all’Is la Khums , la tassa prevista dalla legge islamica per tutti i beni provenienti dalla Terra. Dallo scorso autunno il traffico è invece nelle mani di un vero dipartimento archeologico che lo Stato Islamico ha creato a Manbij, non a caso nei pressi del confine turco. «Qui l’Is ha creato un vero network: fatto di scavatori, ex impiegati museali e ministeriali e perfino archeologi che collaborano o vengono costretti a farlo. E ci sono anche mediatori e venditori “approvati”». Interessato solo al profitto e non alla conoscenza, l’Is usa bulldozer e trattori per gli scavi: distruggendo i siti ancor prima che vengano alla luce. Il professore sospira. «Mirano solo a quel che possono vendere: teste di statue, fregi di decorazioni. Parti preziose e facili da trasportare ». Palmira trasformata in una cava. E questo, come dice Amr al-Azm, dovrebbe renderci tristi e furiosi tutti quanti.


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