DOVE c’è terra per fare soldi in fretta c’è sempre mafia, dove ci sono schiene che si spezzano in due c’è sempre profitto per loro.
UNA VOLTA in Sicilia e nel Sud si chiamavano campieri o gabelloti o sovrastanti, oggi si chiamano caporali. Ma hanno sempre le stesse facce e lo stesso odore, sono sempre loro: mafiosi. In queste nostre campagne c’è sempre chi succhia il sangue altrui e c’è sempre chi muore. Italiani o stranieri, bianchi o di colore, migranti dall’Asia o dall’Africa o dall’Est europeo, senegalesi, albanesi, romeni, ghanesi, campani, pugliesi. Come Paola, uccisa di fatica poco più di un mese fa ad Andria. Come Arcangelo, di San Giorgio Ionico, per un infarto è ancora, dopo una settimana, tra la vita e la morte. Tutti e due schiacciati mentre lavoravano alla “rimozione dei chicchi d’uva malconci”. Raccoglitori di arance nella piana di Gioia Tauro (ricordate la caccia al nero fra Rosarno e Polistena nel gennaio del 2010?), raccoglitori di pomodori negli orti del Casertano, gli schiavi nelle arroventate serre del ragusano, quegli altri massacrati sulle colline piemontesi del barolo. Sono almeno quattrocentomila — dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil — i lavoratori che finiscono ogni anno sotto il tacco dei caporali. E sono almeno ottanta nel nostro Paese i distretti agricoli dove i boss e gli amici dei boss hanno nelle loro mani il destino di uomini e donne che sopravvivono nei campi. Fa bene il ministro Maurizio Martina a dire che il caporalato va combattuto come la mafia: perché il caporalato è mafia.
È la forma di mafia più antica ma che resiste e trova un suo spazio nella contemporaneità. Cos’è il caporalato se non un mezzo efficace per ricattare, per soggiogare, per spremere? È vero e proprio racket.
Si arricchiscono sulla “intermediazione”, cioè sul pizzo. Va a loro, ai caporali, nel migliore dei casi il 50 per cento della quota del reddito sottratto ai lavoratori. I più fortunati percepiscono tra i 20 e i 25 euro al giorno, una media di 10 e a volte anche di 12 ore tra piante e animali e stalle. E poi il pizzo sul pizzo. I lavoratori tra i campi devono comprare tutti i “servizi” che la mafia offre: 5 euro per il trasporto all’alba sui furgoni, 3 o 4 euro per un panino, 1,5 o 2 euro per una bottiglia d’acqua. Tutto denaro che entra sempre e solo in un salvadanaio. Si prendono tutto i caporali. Sino alla fine. Sino all’ultima goccia di sangue.
Chi scivola nei loro artigli difficilmente si può liberare. È un girone chiuso. Chi è dentro subisce e spesso non ha scelta, o sta alle loro condizioni o muore di fame. Chi si ribella diventa obiettivo di terribili punizioni, a volte anche mortali. E in questi casi nessuno sa niente, nessuno denuncia nulla. Spariscono e basta.
L’ultima spaventosa notizia sullo sfruttamento nelle campagne italiane arriva da molto vicino, a due passi da Roma, dall’Agro Pontino. Lì un esercito invisibile di braccianti, centinaia e centinaia di indiani sikh, per resistere alle disumane condizioni di lavoro si droga in massa, ingoiano capsule d’oppio per non sentire la fatica e il dolore. Chiamano “padrone” chi li raccatta per strada ogni mattina per riempire cassette di zucchine e kiwi, poi vengono riforniti di droga dai loro stessi connazionali, fiancheggiatori e vittime, tutti insieme ingoiati dalla terra che avevano cercato per un’altra vita. Ci ha visto giusto il ministro delle Politiche agricole. Bisogna chiamare con quel nome tanto infame — mafiosi — i vampiri dei nostri campi.