Sulla rotta dei Balcani con i profughi in fuga “Da noi si muore un muro non ci ferma”

Sulla rotta dei Balcani con i profughi in fuga “Da noi si muore un muro non ci ferma”

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BELGRADO. GLI OCCHI puntati sulla mappa, le teste chinate a cercare l’indirizzo scarabocchiato su un biglietto, quello di una banca con lo sportello Money-Gram: «Aspettiamo che mio zio ci invii il denaro, non appena lo avremo, andremo via di qui». Mustafa e suo cugino Bilal, seduti sotto un albero nel parco-accampamento all’uscita della stazione dei bus, sono i capofamiglia di un gruppo di siriani di Aleppo e Damasco, donne, bambini e una ragazzina dal velo così bianco da non credere abbia attraversato le stesse polverose traversie dei suoi famigliari.
La distesa di erba rinsecchita dai 37 gradi dell’agosto di Belgrado, a un passo dal centro, ospita centinaia di persone, siriani e afgani di passaggio nel lungo viaggio che da Grecia e Macedonia (con la variante bulgara) punta a nord. Ogni due o tre giorni i visi, le tende, i panni stesi cambiano, non ci si ferma più di 72 ore in città. Una cisterna d’acqua è l’unico servizio a disposizione, così gli uomini si lavano all’aperto, le donne arrostiscono nell’afa. Nell’andirivieni confuso del parco, Mustafa si è sentito chiamare per nome: «Era un amico di Aleppo, non lo vedevo da anni. L’ho trovato diverso, abbiamo lasciato la Siria tanto tempo fa».
I venditori di Sim Card vanno e vengono indaffarati, i rifugiati tengono il cellulare a portata di mano, può arrivare la chiamata del trafficante che per la somma convenuta li condurrà al confine ungherese dove il muro è in costruzione, anche se nessuno qui sembra saperne nulla. Seduti sopra un cartone nel parco, Navid di 16 anni e Heshmat di 20, entrambi afgani, ci raccontano con la baldanza dell’età (e dello scampato pericolo) il momento più difficile del viaggio: «Sul gommone verso l’isola di Mitilene l’acqua entrava e dovevamo buttarla fuori noi. Pensavamo che saremmo morti, davvero non sappiamo perché siamo ancora qui».
Chi attende i soldi dai famigliari, chi si indebita coi trafficanti, chi tenta la sorte sui mezzi pubblici, chi su minivan privati: in una stradina dietro la stazione, venti afgani sono immobili sul marciapiede. Arriva un camioncino, portellone scorrevole e finestrini ciechi. In un minuto sono tutti dentro e già in viaggio. «I soldi che girano sono moltissimi e nel traffico sono coinvolti cittadini serbi e ungheresi, anche senza un passato criminale» spiega Rados Djurovic dell’Asylum Protection Center, ong locale. Ci dà informazioni anche sullo status dei rifugiati: «Una volta in Serbia, vengono concessi tre giorni di tempo per raggiungere uno dei centri per richiedenti asilo sul territorio nazionale ». In pochi però si dirigono ai campi, tutti puntano al confine.
Sono le 22 e al binario 1L della stazione si spalancano gli sportelli del treno per Subotica, ultima città prima dell’Ungheria: si riversano all’interno ragazzi afgani allegri, quasi fossero in gita. A bordo siamo più di 120. Questo è lo stesso treno su cui saliranno, a distanza di due giorni, anche Mustafa e Bilal, mentre Navid e Heshmat hanno scelto il bus. I ferrovieri ci spingono nei vagoni roventi della seconda classe. Le porte che la dividono dalla prima (dove viaggiano gli occidentali) vengono bloccate. Sul convoglio un uomo fa un segno col palmo della mano, per indicare la bassa statura dei bambini: “In Siria i piccoli muoiono così”. Poi fa un gesto come se buttasse via un sacco.
Il convoglio si muove, le mani si alzano in preghiera, che Allah ce la mandi buona. Mezz’ora dopo quasi tutti dormono, stesi sui sedili, oppure sotto, sul pavimento, esausti per troppe notti insonni. Un ragazzino, però, è agitato, conta per me le frontiere attraversate: «Sono sei e quella bulgara è stata la peggiore, la polizia sguinzagliava i cani». Alle 2 di notte arriviamo a Subotica, scendiamo in fila scortati dai poliziotti, il silenzio è così surreale per una stazione affollata che sembra di vivere in un sogno, alla luce dei neon. Fuori, tutti si dileguano nel buio, ognuno a cercare il trafficante che lo porterà di là. Due notti dopo, la stessa scena: tra gli ultimi ad uscire Bilal, Mustafa e la ragazzina col foulard bianco. Ci stringiamo le mani mentre mi confidano a voce bassa: «In stazione la polizia ha voluto 15 euro a testa per lasciarci andare ».
Ora il confine è a otto ore di cammino. Navid e Heshmat si affidano a un trafficante sprovveduto, perdono il segnale GPS nel mezzo della boscaglia. Arrivati di là finiscono braccati dalla polizia ungherese. «Ci hanno fatto dormire all’aperto ma ha piovuto. I siriani hanno protestato e nella confusione la polizia ha usato i lacrimogeni». Anche dal centro di identificazione ungherese si esce con un lasciapassare verso i campi sparsi nel paese: anche qui pochi scelgono di andarci.
Alla stazione internazionale di Budapest, rifugio per centinaia di persone, salutiamo per l’ultima volta Navid e Heshmat. Sul display del binario 6 c’è scritto: “Monaco, h 21.00”. Heshmat sorride salendo sul vagone: «Per non dare nell’occhio ho cambiato vestiti: di che nazionalità ti sembro ora?».


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