Tramonta l’epoca d’oro Dragone fuori controllo e la leadership trema

Tramonta l’epoca d’oro Dragone fuori controllo e la leadership trema

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PECHINO. Era la soluzione, improvvisamente scopre di essere il problema. Sono bastati meno di due mesi, nella percezione collettiva, per cancellare trent’anni di crescita da record. L’estate nera della Cina torna così ad affossare le Borse, il contagio si estende e a Pechino si impone in queste ore una domanda: perché monta la grande fuga da quella che resta la seconda economia mondiale, con ritmi ufficiali di crescita e liquidità che nessuna super-potenza può nemmeno sognare? La leadership rossa censura gli allarmi sul «tramonto dell’era cinese » e scansa i quesiti più imbarazzanti, ma per la prima volta si confronta con la fine dell’epoca d’oro del capital-comunismo e con il ritiro della fiducia nell’onnipotenza del partito- Stato.
L’effetto, secondo i brookers di Shangai, è simile a quello che affligge un bagnante che non sa nuotare quando si accorge che il salvagente a cui è aggrappato si sgonfia: per gettarlo nel panico non serve che sia effettivamente bucato, basta che si riveli appena più molle. L’ennesimo crollo delle Borse ha confermato così ieri i tre segnali più preoccupanti delle ultime settimane: il soccorso di Stato non riesce più a rianimare il finto mercato controllato dallo stesso Stato, gli investitori non credono più né nella crescita infinita della Cina né nei dati diffusi dalle autorità, il governo dà l’impressione di non avere più il controllo della situazione. Dai primi di luglio il tocco magico del Dragone sembra svanito e nonostante i funzionari assicurino un Pil 2015 al previsto più 7% e nuove iniezioni-record di liquidità, i mercati asiatici della redditività da primato vengono trattati come i nuovi appestati dei listini. Il virus si chiama «fiducia» e nel caso della Cina l’infezione, da economica, minaccia di diventare politica. Gli elementi di un’asiatica crisi perfetta stanno affiorando: bolla immobiliare, crollo dell’export e della produzione, tonfo delle Borse a debito, svalutazione, inflazione prossima allo zero, picchiata del prezzo di petrolio e materie prime. Ciò che invece ancora resta coperto è l’effetto devastante della prima grande crisi cinese, innescata dalla difficoltà di cambiare modello di sviluppo, riducendo il potere dello Stato a favore di quello del mercato. Il presidente Xi Jinping tre anni fa è salito al potere con la promessa delle «riforme di mercato». La sua legittimazione affonda la radici non nelle purghe anti-corruzione, ma nella capacità di «cambiare la Cina », rendendola la «super-potenza » del secolo, ricca grazie a modernità e credibilità. Lo strumento adottato fino a ieri è stato il passaggio dalle esportazioni low cost ai consumi interni, dall’operaio in fabbrica al colletto bianco in ufficio, attraverso l’urbanizzazione forzata. La realtà che quotidianamente smentisce le promesse del giorno prima, il ritorno dei cinesi nelle campagne e la rapida riadozione delle pratiche socialiste insinuano ora il timore non solo di una frenata sfuggita di mano, ma di un cammino riformista cinese già defunto e al capolinea.
Non solo a Pechino si accreditano così le voci che la crisi non sia circoscritta a mercati iper-valutati e tenuta dell’economia, ma che l’incubo-impoverimento già travolga i massimi livelli politici del partito.
L’obbiettivo non sarebbe più toccare rapidamente il fondo finanziario per risalire, ma ridimensionare dall’alto il potere del «nuovo Mao» a un anno dalla fine del suo primo mandato. Dalla prevedibilità economica Pechino passa dunque al dubbio su competenza e stabilità politica, che l’avevano fino a ieri garantita: in un sistema autoritario gli interventi di banca centrale, agenzie di pianificazione e fondi sovrani non sono dunque più sufficienti a calmare mercati e governi stranieri, in cui per la prima volta si insinua ufficialmente l’incertezza sulla leadership di Xi Jinping. Una potenza economica che scricchiola non può essere salvata da un partito-Stato che traballa e viceversa, il Dragone cinese dopo trent’anni si morde la coda, Asia e l’Occidente scoprono di essersi affidati troppo ad una locomotiva che non poteva trainare la crescita di tutti, da sola e per sempre.
Le Borse cinesi in una settimana bruciano i guadagni di un anno, i mercati Asia-Pacifico toccano il minimo da sette, le valute dell’Oriente non smettono di scivolare. Più che «sindrome cinese » è il «contrappasso mandarino » di censura e propaganda: più la banca del popolo annuncia liquidità, tagli alle riserve obbligatorie e sblocco dei limiti agli investimenti azionari dei fondi pensione, più i mercati rafforzano la certezza di una realtà economica ben più grave di quanto ammesso. La Cina, da soluzione, è così il problema: più che a Shangai e a Hong Kong il mondo guarda però adesso a Pechino, più che il panico degli investitori valuta i silenzi dei suoi leader, più che all’imprevisto crollo del Giappone anni Ottanta torna con la memoria all’improvvisa implosione dell’Urss anni Novanta.


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