Tsunami finanziario Borse in picchiata dall’Asia agli Stati Uniti in Europa perdite del 6%

by redazione | 25 Agosto 2015 8:31

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L’epicentro è in Cina ma tutti i mercati sono stati colpiti da un’ondata di vendite. Casa Bianca in allarme, consulto tra la Merkel e Hollande. Petrolio sotto 40 dollari
 NEWYORK. Quasi come nel 2008, un vento di panico travolge le Borse di tutto il mondo. L’epicentro della crisi è cambiato rispetto a 7 anni fa, stavolta non è l’America ma la Cina. Lo scoppio della bolla speculativa di Shanghai moltiplica i timori sulle conseguenze per l’economia reale. La frenata della crescita cinese ha già contagiato pesantemente tutte le altre economie emergenti. Le svalutazioni competitive si susseguono, e i danni ora lambiscono l’Occidente.
IL LUNEDÌ NERO PARTE DA ORIENTE
Dopo il venerdì nero che aveva visto un tracollo di oltre 500 punti nell’indice Dow Jones (a -3,58%) e perdite settimanali del 7% sulle piazze europee, le avvisaglie di una giornata drammatica arrivano ancora una volta da Oriente. Alla riapertura della settimana Tokyo e Taiwan, Singapore e l’India, l’Australia e la Nuova Zelanda sono risucchiate nel vortice dell’economia cinese, con cui tutte hanno forti legami d’interdipendenza. Ancora una volta i giochi si decidono a Shanghai, dove il listino frana dell’8,5%. Dall’inizio di questa crisi, in un mese la principale Borsa cinese ha perso il 40%. E’ quindi il peggiore crac dopo quello del 2007-2008.
IL DIRIGISMO CINESE NON BASTA
A diffondere la paura c’è anche un non-evento. E’ il mancato funzionamento di quella “rete di protezione” pubblica messa in piedi tre settimane fa dal presidente Xi Jinping. I trader di Shanghai, Shenzhen e Hong Kong l’avevano chiamata “la squadra nazionale”, con un accento patriottico che tradiva la fiducia in un governo onnipotente. La “squadra nazionale” è un cordone di emergenza composto di banche pubbliche, enti di Stato, fondi pensione, con dietro generosi finanziamenti della banca centrale cinese. L’ordine di scuderia: comprare azioni sul mercato per compensare le vendite del popolo dei piccoli risparmiatori. La “squadra nazionale” ha eseguito le direttive del governo, ma si è rivelata impotente di fronte alla paura di massa. Se la diga del dirigismo cinese non regge di fronte all’onda di piena della psicosi delle vendite, che cosa rimane? Il mondo intero se lo chiede: dall’inizio di questa crisi sino-centrica le Borse globali hanno bruciato 5.000 miliardi di dollari di capitalizzazione. Il governo di Pechino tenta di rassicurare i propri cittadini e il resto del mondo sulla tenuta della propria economia reale, conferma che quest’anno sarà raggiunta una crescita del 7% del Pil. Circolano stime private che parlano di una crescita reale molto inferiore, forse la metà. Di fronte a queste preoccupazioni perfino il cessato allarme tra le due coree ha lasciato indifferenti i mercati.
IL PETROLIO AI MINIMI COME NELLA GRANDE CRISI
Seguendo l’apertura delle Borse in base ai fusi orari, il lunedì nero si estende rapidamente al Golfo Persico e al Medio Oriente, dove ad affondare i listini di Dubai e Ryad (meno 7%) contribuisce un fattore aggiuntivo: è il crollo del petrolio. Il prezzo del greggio scende perfino sotto i 40 dollari al barile, anche questo è un livello che ricorda la grande recessione del 2007 – 2008. Oggi come allora, la caduta delle materie prime si trasforma da una manna in una maledizione. Certo per i paesi consumatori di energia è un beneficio la riduzione della bolletta petrolifera. Salvo che in questo caso – proprio come accadeva sette anni fa – dietro il calo del petrolio c’è sia un eccesso di offerta (buona cosa per noi consumatori) sia una debolezza della domanda. Questo secondo fattore si estende a tutte le materie prime come minerali e metalli. Meno domanda uguale minori consumi. Il potere d’acquisto dei paesi emergenti si riduce. E’ l’altra faccia della deflazione, quella perversa: s’impoveriscono tutti quei mercati dove il made in Italy (e più in generale tutte le industrie occidentali) hanno cercato e trovato sbocchi negli ultimi anni. Da attendersi, ben presto, anche le ripercussioni politiche? Non va dimenticato che la depressione del 2008 generò, tra l’altro, le primavere arabe.
EUROPA VASO DI COCCIO
Le Borse del Vecchio continente alla loro riapertura seguono il copione dettato dalla Cina. Ai minimi delle sedute le perdite a Londra, Francoforte e Milano sono dell’ordine del 7%, le chiusure segnano in media meno 5% con Milano che sfiora il 6%. Ad accentuare le paure dell’Europa c’è una specificità valutaria. Quasi un crudele accanimento contro quella parte del mondo che è ancora convalescente dalla grande crisi del 2008. Sta di fatto che da quando la Cina ha iniziato a svalutare la sua moneta, il renminbi o yuan, l’euro ha cominciato a rafforzarsi perfino sul dollaro. Pessima cosa per i paesi esportatori, ma soprattutto per Italia Francia Spagna cioè quelle economie dove le imprese hanno spesso basato la loro competitività sui prezzi (la Germania è un po’ meno vulnerabile perché la forza delle sue esportazioni risiede soprattutto sulla qualità tecnologica). Ma perché mai la svalutazione del renminbi fa salire l’euro? Due risposte. Primo, perché il valore delle monete è relativo: stanno crollando quelle di tutti i paesi emergenti che per forza seguono la Cina; i capitali che fuggono dai Brics devono pure investirsi altrove. Secondo, questa crisi sta mettendo in dubbio il rialzo dei tassi americani che aveva sospinto in su il dollaro. L’euro dunque rimane stretto in una morsa implacabile che lo rafforza. Proprio quando l’economia europea avrebbe bisogno di una moneta debole. Si spiega così che la crisi cinese sia stata al centro del vertice di ieri tra Angela Merkel e François Hollande: il vaso di coccio.
WALL STREET LIMITA (UN PO’) I DANNI
L’apertura delle Borse americane è al cardiopalmo. L’indice Dow Jones arriva a perdere mille punti in corso di seduta. E’ ormai “panic selling” nel gergo tecnico, una di quelle vendite irrazionali in cui la psicologia delle folle diventa più importante dell’economia. Alla fine riappaiono un po’ di compratori e Wall Street ridimensiona le sue perdite, che restano comunque ragguardevoli: questo agosto 2015 passerà alla storia come il peggior mese dopo il novembre 2008, in quanto a crolli in Borsa. Lo stato d’animo degli investitori è tale che la Cnbc (la più guardata delle tv specializzate nella finanza) manda in onda “Otto cose da sapere in un mercato-orso”. Si definisce “orso” un ciclo di ribassi che fa perdere oltre il 20% del valore azionario. Non ci siamo ancora – in 18 mesi Wall Street ha perso dai massimi oltre il 10% che in gergo è una “correzione” – ma la Cnbc prepara i suoi spettatori al peggio.
LA CASA BIANCA VIENE “INFORMATA”
Barack Obama riceve i suoi consiglieri economici per un “briefing” sull’emergenza dei mercati e la situazione cinese. Il Tesoro Usa fa sapere che “vigila da vicino”. Il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, fa una dichiarazione ufficiale rivolta a Pechino: «La Cina continui le riforme di mercato rivolte alla flessibilità del cambio». Poi ne aggiunge una per gli investitori nazionali: «L’economia americana oggi è ben più solida che nel 2008». Sulla seconda non c’è alcun dubbio, oggi l’America è la più solida tra le economie mondiali. Forse l’unica ad avere ancora un ruolo da locomotiva. Ma la prima affermazione? Qualcuno dubita che sia opportuno auspicare la flessibilità del renminbi: in questa fase le forze di mercato lo spingono sempre più giù. A dar ragione al portavoce di Obama, però, c’è questo fatto: all’origine dei problemi attuali per l’economia cinese ci fu quel prolungato aggancio del renminbi al dollaro, che portò a una rivalutazione (con perdita di competitività). Se Wall Street limita le perdite in chiusura di seduta, è comunque per un’altra ragione: si rafforza la speranza che la Federal Reserve rinvii l’aumento dei tassi d’interesse. Fino a poche settimane fa una mini-stretta monetaria era considerata inevitabile. Ma adesso la gelata che arriva da Oriente può rimettere in discussione i programmi della Fed. E la Borsa ama il credito facile, il denaro a tasso zero…
FIDUCIA A XI JINPING
Un altro elemento inquietante del lunedì nero è proprio quel che esce dal vertice franco-tedesco. Sia la Merkel che Hollande abbondano nelle manifestazioni di fiducia verso Pechino. Testualmente, la cancelliera tedesca si dice sicura che “la Cina troverà le risposte giuste”. E’ già abbastanza singolare che i destini della crescita europea siano appesi alla capacità di stabilizzazione di un regime autoritario. E quali sarebbero le “risposte giuste”, nel caso della Cina? Era ancora in carica Hu Jintao, il predecessore di Xi Jinping, quando Pechino dovette affrontare il pericolo di una recessione nel 2008, perché la depressione americana ed europea decurtarono le esportazioni made in China. Nel 2009 il governo cinese varò una maxi-manovra di investimenti pubblici analoga a quella varata da Obama (e mai varata in Europa). I risultati furono positivi – la Cina non finì in recessione – ma con qualche eredità negativa. Nel boom di investimenti pubblici, in particolare edilizia e grandi opere, ci sono alcuni germi della bolla speculativa che oggi è scoppiata. Se Pechino non vuole ripercorrere la stessa strada, che risposta rimane? La svalutazione è un’arma ben collaudata per rilanciare la crescita, ma a condizione che il contesto esterno sia favorevole, cioè che ci sia una domanda vigorosa sui mercati di sbocco stranieri. Non è il caso attuale, con l’unica eccezione del mercato Usa.
LE INCOGNITE FUTURE.
I timori più fondati devono riguardare l’economia reale, non le Borse. Rialzi e ribassi sono fisiologici in Borsa, e non mancano gli argomenti per sostenere che diversi mercati azionari (dagli emergenti agli Usa) fossero arrivati a livelli troppo alti. Il problema vero è quel che accade all’occupazione e ai redditi delle famiglie. E anche su questo fronte, non tutti sono sullo stesso piano. La Cina è reduce da un quarto di secolo di boom, se questo rallentamento rimanesse controllato potrebbe essere un “atterraggio morbido” verso una crescita sostenibile. Di certo la leadership cinese sta fronteggiando un test che non ha precedenti dai tempi di Piazza Tienanmen (1989) anche per le incognite sulla tenuta politica e sociale. L’America, reduce dai sei anni di crescita, può anch’essa permettersi una battuta d’arresto. Tutt’al più una recessione americana manderà alla Casa Bianca un repubblicano? Se fosse Donald Trump il mondo intero avrà di che divertirsi fino al 2020… La situazione di gran lunga più drammatica è quella dell’Eurozona. Dalla crisi del 2008 il Vecchio continente è l’unica area del mondo a non avere ancora conosciuto una ripresa. Dopo lo shock scatenato sette anni fa da Wall Street, le ricette decise a Berlino e a Bruxelles hanno generato altre due ricadute in recessione. Del vertice Merkel-Hollande di ieri l’aspetto più drammatico è l’attesa che la Cina faccia qualcosa. E’ come se l’Europa abbia cessato di considerarsi padrona del proprio destino. Come se le tempeste dell’economia globale fossero delle calamità naturali, troppo potenti per essere contrastate. E’ in una fase come questa, quando vengono meno i motori di sviluppo dei paesi emergenti, che l’Europa dovrebbe riempire un vuoto. Non ci sono segnali che questo stia per accadere.
I trader cinesi hanno cercato di arginare le vendite ma ha vinto la paura di massa Il portavoce di Obama rassicura: l’economia americana oggi è più solida del 2008
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