Ucraina La guerra nascosta

by redazione | 18 Agosto 2015 10:07

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MAIORSK STAZIONE.  E SIANO MALEDETTI anche i fiordalisi, allora. Natalia è morta così: una bella mattina di sole, i fior di campo che ti vien voglia di cogliere, il tonfo sordo di una mina. A Maiorsk Stazione, un pugno di case nella terra di nessuno tra le bocche dei cannoni rivali, il verde infido del Donbass è dolce e seducente, ma tradisce. «Noi viviamo nell’occhio del ciclone, calma apparente e tutto intorno il disastro », dice Alexej, che con la moglie e altre dieci famiglie abita nel villaggio tra querce e roverelle, lungo uno dei corridoi principali che attraversano la frontiera tra il Donbass ribelle e l’Ucraina: cinque chilometri di bei campi (minati) tra le ultime casematte dei soldati di Kiev e i primi bunker dei ribelli della Dnr, la Repubblica popolare di Donetsk. «Ogni notte si bombardano, e di giorno si sparano fucilate tra le auto in attesa di passare e fuggono via ». Dalla parte ucraina, molte centinaia di auto si distendono in code chilometriche prima di poter attraversare l’ultimo checkpoint, il più vicino al villaggio, dove i controlli sono scrupolosi e lentissimi. Alla sera il confine chiude i battenti fino all’alba, e ricominciano i botti.
Ufficialmente, la guerra è finita il 12 febbraio, quando è stato firmato il secondo accordo di Minsk e il mondo si è rimesso a guardare altrove; ma le bombe non hanno mai taciuto e ora la situazione si è ulteriormente deteriorata: due settimane fa gli osservatori dell’Osce sguinzagliati nel Donbass hanno contato 500 colpi di artiglieria pesante, altrettante la settimana precedente. Le chiamano «violazioni del cessate il fuoco», non guerra, ma si muore malvolentieri anche così.
Nazionalismo e propaganda sono così volgari ed estremi da risultare intollerabili, per la nostra cultura, ma il ben sovvenzionato partito della guerra è assai forte su entrambi i fronti. Seduto dietro un quadro di Stalin nel comando ribelle di Debaltseve, dove soldati e civili morirono come mosche alla vigilia e all’indomani della firma del cessate il fuoco a Minsk, il vicecomandante Artiom punta uno sguardo arrogante e assicura: «Presto i confini cambieranno, con la politica o con le armi. E quando lo faranno, non sarà certo dentro le nostre linee».
A Kiev, i miliziani di Pravj Sektor protestano chiedendo la stessa cosa, ma promettendo la direzione opposta. «Faccio formazione da due mesi — dice la 33enne Alexandra scendendo da un blindato ribelle — e non vedo l’ora di combattere, anche se ho paura di morire. Ho lasciato a casa mia marito e sono venuta al fronte. Se fossi io a comandare, attaccherei per arrivare a Kiev, cambiare il governo e liberare il popolo ». Ma a Kiev basta accendere la tv e le chiamate alle armi sono per «liberare l’Est dai terroristi», come lei.
Da qualche settimana si è ripreso a sparare duro. Armi pesanti, vietate e letali. Gli ospedali hanno ricominciato a ricevere vittime civili con inquietante continuità: donne e bambini, mutilati e moribondi. Si combatte nella zona dell’aeroporto di Donetsk, dove non si è mai smesso, ma anche a Donets’kyi e a Stanytsa Luhanska, nella Lnr, la Repubblica popolare di Luhansk, l’altra provincia ribelle del Donbass; e le bombe stanno sistematicamente devastando Avdivka e Horlovka. A Shirokine, nel Sud, ultimamente la situazione è più calma, si combatte “solo” con le armi leggere, ma è soprattutto qui che la guerra rischia di divampare: «È zona strategica per noi », dice il comandante ribelle Alexej, russo di Chelyabinsk, alla guida di «un battaglione di 8mila uomini»: «Entrambe le parti si stanno preparando alla guerra. Il Donbass deve essere indipendente, e la zona chiave è la costa lungo il mar d’Azov», verso Mariupol e la Crimea. Dice di essere «volontario», come tutti i russi dell’esercito ribelle. Anche i carrarmati russi sono volontari, comandante? «Certo», sorride.
Tra i civili, invece, la musica è altra. Un requiem, spesso. A una decina di chilometri dalla Stazione di Maiorsk la città di Horlivka è quotidianamente sotto tiro. L’Osce registra, ma i suoi algidi bollettini cadono nel vuoto. «Mia mamma, Anna, è morta qui, sotto le macerie di questa veranda, nella casa di famiglia. Nascosta nelle cantine era sopravvissuta ai bombardamenti tedeschi della II Guerra mondiale, ma ora era troppo anziana per scendere » la ripida scala di legno che porta al sicuro. «Ieri abbiamo seppellito le gambe: è tutto quello che hanno trovato», dice Alexander.
Non sono solo i russi a violare gli accordi di Minsk aiutando i ribelli; ogni notte li violano anche le bombe ucraine: l’artiglieria pesante dovrebbe essere fuori portata. Ma sebbene gli abbiano appena ucciso la madre, Alexander è prudente nell’affibbiare colpe: «Fate finta di nulla e guardate qui — invita — li vedete i ribelli? Quello è l’ospedale, ne hanno preso un’ala, così usano i civili come scudi umani. Prima erano in una scuola. Ogni tanto vanno in mezzo alle case e sparano verso le linee ucraine. E quelli rispondono, e ci ammazzano». Chiunque sia stato il primo, ogni notte la povera gente di Horlivka sco- pre se è arrivato il momento di allargare la tomba di famiglia.
Tra Mosca e Kiev, intanto, è anche guerra di parole ed immagini. Da una parte, Vladimir Putin ha pensato bene di recarsi in Crimea, dove ieri ha ribadito che «russi e ucraini sono lo stesso popolo », mentre il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha lanciato «l’allarme» affermando che il peggioramento della situazione nel sud-est ucraino fa pensare a «preparativi per una nuova azione militare». Dall’altra, il presidente ucraino Petro Poroshenko reagisce dichiarando che la visita di Putin in Crimea è «una sfida al mondo civilizzato» e che il futuro della penisola «è solo all’interno dell’Ucraina».
«Questa è una guerra tra Obama e Putin, e noi siamo gli ostaggi », dice il 28enne Maxim. Ribelle riluttante, Maxim sorseggia “caffè chimico” nel Tim’s Cafè in centro a Donetsk. È in licenza, abbracciato alla sua fidanzata di Kiev.
E allora perché combatti, Maxim? «È il mio lavoro. Le miniere sono quasi tutte ferme e le fabbriche anche di più. Come vuoi che campi, la gente? Io guadagno 20mila rubli al mese», quasi 300 euro. Vivere, nel Donbass, è durissimo. La spesa è cara. «Noi siamo di Severodonetsk, i prezzi sembrano quelli di Murmansk», il capoluogo artico russo in cui si paga la natura estrema. «Possono volerci due giorni per passare il checkpoint — racconta Lara, — ma dieci uova costano 25 grivna (1,10 euro) contro 10 in Ucraina, la carne 150 contro 90, il pollo 73 contro 35». Ecco perché si formano code immani. Chi ha tempo e auto va, e al ritorno vende cibo ai vicini. «Ma devi fare bene i conti: la benzina, il diritto di transito ucraino da 900 grivna a persona più 600 per l’auto, il limite di trasporto da 50 chili di merce a testa».
Da mesi l’Ucraina ha bloccato il commercio con il Donbass ribelle, e ora i prodotti arrivano dal mercato nero e costano una fortuna: «Per far passare un camion di latte si pagano 100mila grivna (4.300 euro) ai doganieri. Gli snack che io vendo a 25 grivna, in Ucraina ne costano 4», dice Eduard, che gestisce un baracchino di prodotti ucraini e russi nella spiaggia di Sjedove, il Donbass resort degli intrappolati dalla guerra strisciante. Qui, lungo la breve costa del mar d’Azov controllata dai ribelli, viene a rilassarsi chi non ha tempo e soldi per andare in Crimea o in Turchia, come Alexandr e Natalja, una giovane coppia di Donetsk: «Ogni fine settimana cenetta di pesce in riva al mare e discoteca ».
Alle 22 scatta il coprifuoco. I ristoranti migliori di Donetsk hanno tutti riaperto, gli uomini stappano spumante e le ragazze esibiscono tacchi vertiginosi e abitini da sera, ma alle 23 non c’è più un’anima. E in periferia riecco la guerra. Davanti alla miniera Trudovskaya 46 povere anime vivono recluse con nove bimbi nel rifugio atomico sovietico.
La miniera è inattiva, ma il condominio sotterraneo dei rifugiati è al completo. Cristiana e Evelina, mamma e bimba, hanno 26 anni in due e sono qui da un anno e mezzo: «Le bombe esplodono tutte le sere, e a volte cominciano di pomeriggio: se ti trovano in casa, sei morta». E allora sono prigioniere del rifugio. Papà, invece, è prigioniero del loro appartamento: non lo lascia per paura degli sciacalli. Ma si può vivere così? Ha ragione Alexej, l’uomo della terra di nessuno: «Noi, al massimo, possiamo sopravvivere».
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