Il fronte siriano
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Bashar Assad ha inaugurato un nuovo parco a Damasco, 9 mila metri quadrati, un po’ più grande di un campo da calcio, dedicati a Kim II-sung. Perché il dittatore che ha creato la Corea del Nord era amico di suo padre Hafez, perché i due regimi sono sempre stati alleati (i coreani l’hanno aiutato a costruire un centro atomico segreto distrutto da un bombardamento israeliano nel 2007), perché chiunque critica Kim per la sua brutalità «è un assurdo idiota» come ha commentato un ministro siriano alla cerimonia.
Il parco sta a pochi chilometri da Yarmouk, che da campo per accogliere i rifugiati palestinesi è diventato un campo di concentramento come quelli costruiti da Kim e dai suoi discendenti. Le truppe di Assad usano la fame per piegare gli abitanti che ancora resistono all’assedio, l’acqua e l’elettricità sono state tagliate, malattie scomparse (il tifo e la poliomelite) sono tornate a colpire i bambini e gli anziani, i terroristi dello Stato Islamico si sono asserragliati nei palazzoni grigi per premere sulla capitale.
Il clan che ha dominato la Siria per quasi cinquant’anni controlla ormai solo Damasco e le regioni che da qui scendono verso le montagne al confine con il Libano e verso il mare, 30 mila chilometri quadrati, un sesto di tutto il Paese. Il dittatore e i suoi consiglieri stranieri — i russi, gli iraniani, i libanesi di Hezbollah — contano di poter difendere queste zone-roccaforte dalle incursioni dei ribelli e dei miliziani che rispondono agli ordini del Califfo. È la strategia realistica che Assad ha ammesso di aver adottato in un discorso alla nazione: «Non siamo in grado di tenere tutte le posizioni, consolidiamo quelle che sono più importanti». Sa di aver perso anche il sostegno dei drusi: per la prima volta hanno attaccato le sue forze in una provincia del sud dopo l’uccisione di un leader religioso che si era ribellato agli ordini del governo.
Così i russi hanno scelto Latakia, il porto sul Mediterraneo abitato dalla minoranza alauita al potere, come base per preparare quello che sembra il dispiegamento dei suoi soldati. Il regime ne ha bisogno: le famiglie nascondono i giovani chiamati alla leva obbligatoria, i disertori sono in aumento, le truppe irregolari sciite di Hezbollah sono sfiancate da tre anni di battaglie nella guerra che va avanti da quattro e mezzo. Le proteste di John Kerry, il segretario di Stato americano, non preoccupano Vladimir Putin. È consapevole che i bombardamenti americani contro lo Stato Islamico — adesso anche i francesi e i britannici sono pronti a partecipare ai raid — alla fine rafforzano la posizione di Assad. Il presidente russo e gli iraniani non hanno mai smesso di sostenerlo e di ripetere che la cacciata del chirurgo oculistico diventato presidente non era in discussione. Fin dal 2012 quando a Ginevra le potenze internazionali cercano di trovare una soluzione al conflitto: gli europei e gli americani vogliono estromettere il dittatore dal processo di transizione, per superare l’opposizione di Mosca e Teheran propongono di inserire nel comunicato finale la formula «è escluso chiunque abbia le mani sporche di sangue». La risposta del diplomatico russo è rivelatrice: «Ma così è chiaro che parliamo di Assad».
Il sangue è quello dei primi manifestanti che nel marzo del 2011 scendono in strada a Deraa, nel sud della Siria, per chiedere il rilascio dei loro ragazzi, arrestati e torturati per aver scritto slogan contro il regime sul muro della scuola. Il sangue è quello dei civili massacrati dalle «botti bomba» sganciate sui quartieri dagli elicotteri, così imprecise che gli ufficiali tengono i soldati molto lontano e le famiglie si sono ormai convinte che la prima linea sia più sicura di casa loro. Il sangue è quello dei 65 mila scomparsi nelle celle dei servizi segreti — secondo l’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor — da quando la rivolta è cominciata.
Un rapporto pubblicato dall’Onu pochi giorni fa prova a documentare quello che è successo dentro la Siria in questi ultimi mesi, da gennaio a luglio. «I civili restano presi in mezzo — scrive la commissione d’inchiesta guidata dal brasiliano Paulo Pinheiro — tra i bombardamenti del regime e l’offensiva dello Stato Islamico, colpevole di crimini contro l’umanità: torture, violenza sessuale, traffico di schiavi». La responsabilità è anche delle potenze che competono per l’influenza nella regione: «Il conflitto è alimentato da forze internazionali che vogliono sostenere i loro interessi geopolitici. Questa competizione ha esacerbato lo scontro etnico e religioso istigato da predicatori e combattenti stranieri».
I siriani hanno dovuto lasciare le loro case per rifugiarsi nei Paesi confinanti o diventare esuli nella loro stessa patria prima che lo Stato Islamico sparigliasse la sfida tra i ribelli sunniti e il clan alauita degli Assad, prima che spadroneggiasse nella provincia di Raqqa e ne facesse il suo dominio in Siria nel maggio del 2014, prima che massacrasse i curdi a Kobane.
Oggi i profughi sono 12 milioni, di cui 4 sono riusciti a scappare dall’altra parte del confine, in 250 mila così disperati da cercare la salvezza nell’Iraq dove la guerra non è mai finita e dove lo Stato Islamico avanza. Metà della popolazione ha bisogno di assistenza, quattro siriani su cinque sono finiti in miseria, 3 milioni di bambini non vanno più a scuola, il 57 per cento degli ospedali pubblici è stato danneggiato e il 37 per cento non funziona più: la maggior parte è stata attaccata — per punire i villaggi o i quartieri ribelli — dallo stesso governo che li aveva costruiti. Un siriano deve aspettarsi di vivere in media, calcola l’Organizzazione mondiale della sanità, fino a 55 anni, venti in meno di prima della guerra, e anche così vorrebbe dire che gli è andata meglio dei 300 mila già morti nel conflitto, quelli che a un certo punto le Nazioni Unite hanno smesso di contare.
Il parco sta a pochi chilometri da Yarmouk, che da campo per accogliere i rifugiati palestinesi è diventato un campo di concentramento come quelli costruiti da Kim e dai suoi discendenti. Le truppe di Assad usano la fame per piegare gli abitanti che ancora resistono all’assedio, l’acqua e l’elettricità sono state tagliate, malattie scomparse (il tifo e la poliomelite) sono tornate a colpire i bambini e gli anziani, i terroristi dello Stato Islamico si sono asserragliati nei palazzoni grigi per premere sulla capitale.
Il clan che ha dominato la Siria per quasi cinquant’anni controlla ormai solo Damasco e le regioni che da qui scendono verso le montagne al confine con il Libano e verso il mare, 30 mila chilometri quadrati, un sesto di tutto il Paese. Il dittatore e i suoi consiglieri stranieri — i russi, gli iraniani, i libanesi di Hezbollah — contano di poter difendere queste zone-roccaforte dalle incursioni dei ribelli e dei miliziani che rispondono agli ordini del Califfo. È la strategia realistica che Assad ha ammesso di aver adottato in un discorso alla nazione: «Non siamo in grado di tenere tutte le posizioni, consolidiamo quelle che sono più importanti». Sa di aver perso anche il sostegno dei drusi: per la prima volta hanno attaccato le sue forze in una provincia del sud dopo l’uccisione di un leader religioso che si era ribellato agli ordini del governo.
Così i russi hanno scelto Latakia, il porto sul Mediterraneo abitato dalla minoranza alauita al potere, come base per preparare quello che sembra il dispiegamento dei suoi soldati. Il regime ne ha bisogno: le famiglie nascondono i giovani chiamati alla leva obbligatoria, i disertori sono in aumento, le truppe irregolari sciite di Hezbollah sono sfiancate da tre anni di battaglie nella guerra che va avanti da quattro e mezzo. Le proteste di John Kerry, il segretario di Stato americano, non preoccupano Vladimir Putin. È consapevole che i bombardamenti americani contro lo Stato Islamico — adesso anche i francesi e i britannici sono pronti a partecipare ai raid — alla fine rafforzano la posizione di Assad. Il presidente russo e gli iraniani non hanno mai smesso di sostenerlo e di ripetere che la cacciata del chirurgo oculistico diventato presidente non era in discussione. Fin dal 2012 quando a Ginevra le potenze internazionali cercano di trovare una soluzione al conflitto: gli europei e gli americani vogliono estromettere il dittatore dal processo di transizione, per superare l’opposizione di Mosca e Teheran propongono di inserire nel comunicato finale la formula «è escluso chiunque abbia le mani sporche di sangue». La risposta del diplomatico russo è rivelatrice: «Ma così è chiaro che parliamo di Assad».
Il sangue è quello dei primi manifestanti che nel marzo del 2011 scendono in strada a Deraa, nel sud della Siria, per chiedere il rilascio dei loro ragazzi, arrestati e torturati per aver scritto slogan contro il regime sul muro della scuola. Il sangue è quello dei civili massacrati dalle «botti bomba» sganciate sui quartieri dagli elicotteri, così imprecise che gli ufficiali tengono i soldati molto lontano e le famiglie si sono ormai convinte che la prima linea sia più sicura di casa loro. Il sangue è quello dei 65 mila scomparsi nelle celle dei servizi segreti — secondo l’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor — da quando la rivolta è cominciata.
Un rapporto pubblicato dall’Onu pochi giorni fa prova a documentare quello che è successo dentro la Siria in questi ultimi mesi, da gennaio a luglio. «I civili restano presi in mezzo — scrive la commissione d’inchiesta guidata dal brasiliano Paulo Pinheiro — tra i bombardamenti del regime e l’offensiva dello Stato Islamico, colpevole di crimini contro l’umanità: torture, violenza sessuale, traffico di schiavi». La responsabilità è anche delle potenze che competono per l’influenza nella regione: «Il conflitto è alimentato da forze internazionali che vogliono sostenere i loro interessi geopolitici. Questa competizione ha esacerbato lo scontro etnico e religioso istigato da predicatori e combattenti stranieri».
I siriani hanno dovuto lasciare le loro case per rifugiarsi nei Paesi confinanti o diventare esuli nella loro stessa patria prima che lo Stato Islamico sparigliasse la sfida tra i ribelli sunniti e il clan alauita degli Assad, prima che spadroneggiasse nella provincia di Raqqa e ne facesse il suo dominio in Siria nel maggio del 2014, prima che massacrasse i curdi a Kobane.
Oggi i profughi sono 12 milioni, di cui 4 sono riusciti a scappare dall’altra parte del confine, in 250 mila così disperati da cercare la salvezza nell’Iraq dove la guerra non è mai finita e dove lo Stato Islamico avanza. Metà della popolazione ha bisogno di assistenza, quattro siriani su cinque sono finiti in miseria, 3 milioni di bambini non vanno più a scuola, il 57 per cento degli ospedali pubblici è stato danneggiato e il 37 per cento non funziona più: la maggior parte è stata attaccata — per punire i villaggi o i quartieri ribelli — dallo stesso governo che li aveva costruiti. Un siriano deve aspettarsi di vivere in media, calcola l’Organizzazione mondiale della sanità, fino a 55 anni, venti in meno di prima della guerra, e anche così vorrebbe dire che gli è andata meglio dei 300 mila già morti nel conflitto, quelli che a un certo punto le Nazioni Unite hanno smesso di contare.
Davide Frattini
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