La nuova bolla Usa nello shale gas 169 miliardi di debiti

La nuova bolla Usa nello shale gas 169 miliardi di debiti

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Un semestre contabile si è chiuso, e si possono cominciare a fare i conti del costo del petrolio basso per gli operatori del settore idrocarburi. Circa 32 miliardi di dollari per i produttori di petrolio e gas da scisti ( con la tecnica shale), vicino ai 37,7 miliardi di sbilancio che avevano totalizzato nell’intero 2014, che solo da luglio aveva visto i prezzi del greggio scendere bruscamente e dimezzarsi (anche se ieri il Brent ha segnato un rialzo del 3,6% a 49,36 dollari a barile, in scia delle indicazioni positive arrivate dalla congiuntura europea).
Anche solo fermando il calendario al 21 agosto avevano portato il conteggio tenuto da Standard & Poor’s dei default societari nel mondo a 70, già dieci più che nell’intero 2014, e in predicato per superare gli 81 fallimenti del 2013. Di questi 70 default, almeno un quarto riguardano società attive nell’estrazione di petrolio e nel gas: ultime della lista le due statunitensi SandRidge Energy e Samson Resources, declassate in agosto rispettivamente a Sd (selective default) e D (default) dall’agenzia di rating statunitense. Non è un caso 40 dei 70 fallimenti societari di questi primi nove mesi 2015 riguardi aziende statunitensi.
Il Financial Times lunedì ha calcolato il differenziale tra gli investimenti delle società che estraggono idrocarburi dagli scisti tramite fratturazione idraulica e altri processi non convenzionali negli Stati Uniti usando i dati di Factset. Anche il debito netto dei produttori di shale sta crescendo alle stelle: nei primi sei mesi del 2015 è salito a 169 miliardi di dollari, oltre il doppio rispetto all’ammontare di fine 2010. Proprio il fardello finanziario sta frenando la produzione di idrocarburi negli States, vista scendere in maggio e giugno, e che gli addetti ai lavori pensano calerà ancora, anche se dal dato record dello scorso ottobre, il numero di pozzi esplorativi è già crollato del 59%.
La diminuzione dei prezzi, legata al rallentamento delle economie dei paesi emergenti e all’eccesso di produzione del cartello dei paesi Opec, era stata letta anche come una strategia dei “falchi” dell’Arabia Saudita per rimettere al loro posto i ruspanti produttori shale a stelle e strisce, che negli ultimi anni hanno regalato agli Stati Uniti l’indipendenza energetica e anzi stanno per fane un esportatore temibile.
Gli effetti geopolitici ed economici del barile basso, tuttavia, sono ben più ampi, e imprevedibili. In Russia, per esempio, dove il bilancio statale si regge per metà sulle entrate da idrocarburi, si è vista la prima recessione dal 2009. Tuttavia i colossi energetici di Mosca, che beneficiano di aliquote fiscali mobili che calano con il calare del prezzi del greggio, si stanno mostrando molto più resilienti rispetto alle loro rivali a stelle e strisce. Rosneft, Lukoil e Gazprom, ha calcolato Goldman Sachs, stanno generando cassa come se i prezzi petroliferi fossero ancora a 100 dollari, anziché a 50. E beneficiano dei costi di produzione più bassi del mondo, lasciando il conto delle minori entrate fiscali al Cremlino. Difatti, da inizio gennaio i titoli delle major russe sono in leggero rialzo, mentre la Shell perde il 27%, British Petroleum il 17%, e così le altre major occidentali, che contribuiscono a tenere l’indice settoriale Msci energia in fondo alla lista dei rendimenti. Anche se l’italiana Eni non rientra nelle casistiche, il suo titolo è tra i migliori nel 2015 con un saldo in pareggio.


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