L’arcipelago dei ghetti

L’arcipelago dei ghetti

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IL 2 MAGGIO 1989 il governo comunista ungherese apriva per primo un varco nella cortina di ferro, dissigillando l’Europa oppressa dalle barriere della guerra fredda.
Sei mesi dopo cadeva il Muro di Berlino. Quest’estate il democraticamente eletto governo ungherese ha alzato una barriera di filo spinato e cemento al confine con la Serbia — più precisamente con la regione della Vojvodina, che i nazionalisti magiari considerano provincia dell’agognata Grande Ungheria —per impedirne il valico da parte dei migranti. Ad annunciare la stagione dei nuovi muri che stanno ridividendo il continente “riunificato” nell’Ottantanove.Movente: la paura dei “nuovi barbari”che minaccerebbero la nostra pace e il nostro benessere.Versione corrente di quei “treni di paura” —esplosioni collettive e ingovernate di terrore — cui lo storico francese Jean Delumeau attribuiva la gran parte dei conflitti scoppiati in Europa fra Trecento e Seicento.
Se non sapremo governare questa nuova onda di paura,l’Europa libera e unita che sognavamo alla fine dello scorso secolo si muterà in un grande ghetto. Peggio, un arcipelago di ghetti: quelli per i privilegiati, ovvero gli “europei di ceppo”che esistono solo nelle teste eccitate dei nuovi/vecchi appassionati di classificazioni razziali; e quelli per i dannati fuggiti dai cento Sud alla fame e/o in guerra, a loro volta ripartiti per categorie sociali e famiglie etniche.
La posta in gioco è il nostro libero destino democratico.Perché la paura di massa è il peggior nemico della libertà. È il sentimento diffuso sul quale da sempre speculano gli intolleranti d’ogni risma e gli aspiranti dittatori.
Sembra che non tutti i responsabili politici europei siano consapevoli dell’altezza di questa sfida. Di sicuro alcuni tra essi, specie sul fronte della destra non solo estrema, fanno del loro meglio per cavalcare o addirittura eccitare questo sentimento, illudendosi di poter controllare l’incendio che essi stessi hanno contribuito ad appiccare. Una cosa è rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini. Tutt’altra è fomentare il senso di insicurezza dipingendo un’apocalissi che non c’è. Così alimentando il fenomeno che si dice di voler scongiurare.
La battaglia per la gestione comune della sfida migratoria è l’ultima frontiera della politica europea. Qui cade o risorge lo spirito d’Europa, nel senso originario del termine. Il bollettino dai fronti di questa guerra non è però confortante.Ciascun paese si muove rigorosamente per suo conto, cercando di scaricare l’emergenza, effettiva o mediatica, sul vicino meridionale. Da Calais al Nordafrica e alle frontiere balcaniche si gioca allo scaricamigrante. Vince chi respinge più migranti verso il territorio del socio comunitario alla sua frontiera meridionale, il quale a sua volta cerca di riallocarne quanti possibile nei (presunti) paesi d’origine. Tutto ciò in spregio delle più elementari norme d’umanità che dovrebbero governare i rapporti tra esseri della medesima specie. Ma a forza di gridare all’invasione finiamo per convincerci che,in fondo, chi bussa alla nostra porta non appartiene alla razza umana. È spazzatura, da tenere lontano dai fortificati cancelli di casa.
In questo clima, a poco serve che il numero due della pallida Commissione europea, l’olandese Frans Timmermans, invochi un unico sistema d’asilo per l’Ue e ricordi che «se unita, una comunità di 500 milioni di persone è in grado di gestire la situazione». Qualche maggiore eco si spera possano avere le parole della cancelliera tedesca, campionessa del rigore fiscale, che di fronte alle stragi nei barconi e nei camion piombati invoca maggiore “flessibilità”. Ma quando il leader della patria della democrazia occidentale, il premier britannico David Cameron, si lascia sfuggire frasi sullo “sciame” migratorio, neanche si trattasse di api, e il suo ministro dell’Interno pretende di chiudere le porte del Regno Unito financo ai cittadini comunitari in cerca di lavoro — provocando la reazione della Confindustria locale che sa quanto quelle braccia e quelle teste servano all’economia nazionale — significa che il livello di guardia è superato.
La questione migratoria continuerà ad occuparci per decenni, forse per secoli, non fosse che per i dislivelli nei tassi di natalità e per il crescente, formidabile divario demografico fra Nord e Sud del mondo. Una tendenza epocale non si gestisce erigendo barriere che hanno il solo effetto di deviare i flussi da un paese all’altro, salvo tornare alla casella di (ri)partenza.
Se consapevoli dell’indivisibilità del problema, noi europei abbiamo i mezzi per affrontare insieme una sfida da cui usciremo in ogni caso cambiati, in peggio o in meglio. Il primo passo è non farsi dirigere dalla paura, recuperare il senso delle proporzioni e delle responsabilità, raffreddare la comunicazione, razionalizzare e coordinare l’approccio delle istituzioni. Se la politica ha ancora un senso, se non vogliamo autodistruggerci in un regime di permanente emergenza, è il momento per l’Europa di battere un colpo.


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