Benvenuti nella società delle icone
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Ragionare per immagini è stata la via sperimentata con successo dall’Iconologia rinascimentale e riscoperta oggi con espressioni depotenziate da ogni contenuto filosofico. Il funzionamento e il significato di questa strada d’accesso al sapere, diventata oggi un’idolatria senza idoli, l’ha spiegata per tutta la vita Hans Belting, premio Balzan 2015 per la storia dell’arte e delle immagini. Il 13 novembre, a Berna, in occasione del conferimento del premio, Belting terrà un discorso sul significato delle immagini nella storia dell’Occidente e annuncerà a quale progetto di ricerca destinare il 50% del riconoscimento (750.000 franchi svizzeri, circa 693 mila euro).
Tra i maggiori iconologi e storici dell’arte, Belting (1935) ha insegnato nelle università di Amburgo, Heidelberg e Harvard prima di dar vita all’Institut für Kunstwissenschaft und Medientheorie della Staatliche Hochschule für Gestaltung a Karlsruhe, quasi un moderno Bauhaus.
Lei si occupa di antropologia delle immagini. Il culto dell’Occidente contemporaneo per le immagini, a discapito del testo, è una forma di idolatria?
«Anche nel passato l’immagine ha avuto un importante ruolo sociale, non dico di idolatria, ma sicuramente di culto. Oggi c’è un nuovo ruolo dell’immagine perché attraverso i mass media sono diventate omnipervasive. In passato servivano come illustrazioni, soprattutto di testi; oggi siamo di fronte a una rottura con il passato proprio a causa dell’importanza assunta dai mass media. Il ruolo delle immagini è diventato così importante da essere studiato da una scienza, la Bildwissenschaft . In definitiva, prima le immagini erano marginali mentre ora sono la rental agency (l’agenzia di noleggio) della nostra cultura».
L’uso di immagini digitali è diventata una moderna iconomania?
«Non è nuovo questo aspetto. Negli anni 50-60 era già vivo. Ho scritto un libro, La storia del viso , che mostra come ciascuno di noi abbia una sola faccia ma, attraverso le diverse espressioni, questa faccia si trasformi in svariate immagini. Questo mostra la potenza dell’immagine ed è per questo motivo che si è diffusa in maniera pervasiva».
Il potere seduttivo dell’immagine investe oggi anche il corpo attraverso i tatuaggi…
«Non mi piacciono. In passato i tatuaggi erano un emblema o un simbolo di culto. Oggi sono una moda, un uso effimero dell’immagine. Passeranno».
L’arte contemporanea, però, sembra prediligere l’esibizione del corpo proprio, la performance, alla raffigurazione del corpo attraverso le immagini.
«Una cinquantina d’anni fa è avvenuta la grande rivoluzione consistita nella sostituzione della pittura con gli altri media. Io ho due centri di ricerca in cui mi occupo di nuovi media. Il primo è il Centro per le arti e i media di Karlsruhe in cui si studiano i media nell’arte contemporanea; l’altro è la mia scuola dei nuovi media. L’arte contemporanea non poteva essere un’eccezione rispetto agli altri media. E così è diventata pervasa dai nuovi strumenti espressivi come video, performance e installazioni. I media rappresentano un’alternativa alla rappresentazione originale dei corpi. Si tratta di un cambio generale nella cultura visuale che non è più solo una cultura di cose rappresentate che finiscono in musei e gallerie».
Si delinea uno scenario in cui esiste solo il media digitale mentre l’universo materiale perde di consistenza. Ma senza questo la vita non esiste…
«Io ho espresso perplessità sui libri digitali; ma non ha senso avere paura dei nuovi media perché la rivoluzione va avanti. Non è una questione di cosa piace o cosa non piace; le cose succedono senza tener conto del mio parere. È sempre stato così: io magari odio quello che succede, ma succede comunque e quindi lo descrivo. In un mio libro parlo delle immagini come nomadi dei media: le immagini cambiano in relazione al medium che le ospita, che siano stampe, foto o video. Per il resto non è una questione di media, ma di qualità artistica».
Ma ciascuno di noi, scegliendo cosa insegnare, trasmettere…, compie però delle scelte critiche che orientano l’andamento della storia…
«Tutti possono scegliere cosa insegnare o come insegnare l’arte; ma io non ho alcun consiglio da dare perché il nostro mondo è troppo contraddittorio. Ad Harvard, a volte, i miei compagni di classe mi prendevano in giro perché passavo il tempo guardando le immagini anziché i testi da leggere. Nessuno avrebbe potuto prevedere che le immagini sarebbero diventate dominanti come lo sono nell’era della tv e di YouTube. Ora il mio interesse va alla globalizzazione dell’arte in tutte le altre parti del mondo».
Perché l’Islam, ancora oggi, detesta o ha paura delle immagini?
«Il problema non è l’uso delle immagini nell’Islam. Che sia scultura, architettura o pittura l’Isis vuole cancellare le reliquie degli infedeli distruggendo l’ heritage dei non musulmani. L’Isis attacca tutto quello che nell’Occidente è importante ed è una questione più politica che religiosa. Non è un problema di immagini; scopo della loro distruzione è fare notizia, farsi odiare dalla gente, umiliare l’Occidente. L’effetto è molto più importante dell’oggetto della distruzione. È una catastrofe incredibile quella di Palmira e l’Occidente è molto debole di fronte a quanto avviene».
I cattolici, invece, continuano a credere nell’immagine anche quando, come reliquia, viene screditata dalla scienza. È il caso della Sindone…
«La Sindone non è un’immagine ma un lenzuolo di sepoltura. Non si può dire che sia una falsificazione perché nel Medioevo nessuno avrebbe potuto falsificare un tale simbolo. Non sappiamo oggi se sia Cristo o non lo sia. Abbiamo un elemento antropologico sicuro: la gente vuole le immagini di quello che adora, e vuole immagini speciali, diverse dalle altre».
Tra i maggiori iconologi e storici dell’arte, Belting (1935) ha insegnato nelle università di Amburgo, Heidelberg e Harvard prima di dar vita all’Institut für Kunstwissenschaft und Medientheorie della Staatliche Hochschule für Gestaltung a Karlsruhe, quasi un moderno Bauhaus.
Lei si occupa di antropologia delle immagini. Il culto dell’Occidente contemporaneo per le immagini, a discapito del testo, è una forma di idolatria?
«Anche nel passato l’immagine ha avuto un importante ruolo sociale, non dico di idolatria, ma sicuramente di culto. Oggi c’è un nuovo ruolo dell’immagine perché attraverso i mass media sono diventate omnipervasive. In passato servivano come illustrazioni, soprattutto di testi; oggi siamo di fronte a una rottura con il passato proprio a causa dell’importanza assunta dai mass media. Il ruolo delle immagini è diventato così importante da essere studiato da una scienza, la Bildwissenschaft . In definitiva, prima le immagini erano marginali mentre ora sono la rental agency (l’agenzia di noleggio) della nostra cultura».
L’uso di immagini digitali è diventata una moderna iconomania?
«Non è nuovo questo aspetto. Negli anni 50-60 era già vivo. Ho scritto un libro, La storia del viso , che mostra come ciascuno di noi abbia una sola faccia ma, attraverso le diverse espressioni, questa faccia si trasformi in svariate immagini. Questo mostra la potenza dell’immagine ed è per questo motivo che si è diffusa in maniera pervasiva».
Il potere seduttivo dell’immagine investe oggi anche il corpo attraverso i tatuaggi…
«Non mi piacciono. In passato i tatuaggi erano un emblema o un simbolo di culto. Oggi sono una moda, un uso effimero dell’immagine. Passeranno».
L’arte contemporanea, però, sembra prediligere l’esibizione del corpo proprio, la performance, alla raffigurazione del corpo attraverso le immagini.
«Una cinquantina d’anni fa è avvenuta la grande rivoluzione consistita nella sostituzione della pittura con gli altri media. Io ho due centri di ricerca in cui mi occupo di nuovi media. Il primo è il Centro per le arti e i media di Karlsruhe in cui si studiano i media nell’arte contemporanea; l’altro è la mia scuola dei nuovi media. L’arte contemporanea non poteva essere un’eccezione rispetto agli altri media. E così è diventata pervasa dai nuovi strumenti espressivi come video, performance e installazioni. I media rappresentano un’alternativa alla rappresentazione originale dei corpi. Si tratta di un cambio generale nella cultura visuale che non è più solo una cultura di cose rappresentate che finiscono in musei e gallerie».
Si delinea uno scenario in cui esiste solo il media digitale mentre l’universo materiale perde di consistenza. Ma senza questo la vita non esiste…
«Io ho espresso perplessità sui libri digitali; ma non ha senso avere paura dei nuovi media perché la rivoluzione va avanti. Non è una questione di cosa piace o cosa non piace; le cose succedono senza tener conto del mio parere. È sempre stato così: io magari odio quello che succede, ma succede comunque e quindi lo descrivo. In un mio libro parlo delle immagini come nomadi dei media: le immagini cambiano in relazione al medium che le ospita, che siano stampe, foto o video. Per il resto non è una questione di media, ma di qualità artistica».
Ma ciascuno di noi, scegliendo cosa insegnare, trasmettere…, compie però delle scelte critiche che orientano l’andamento della storia…
«Tutti possono scegliere cosa insegnare o come insegnare l’arte; ma io non ho alcun consiglio da dare perché il nostro mondo è troppo contraddittorio. Ad Harvard, a volte, i miei compagni di classe mi prendevano in giro perché passavo il tempo guardando le immagini anziché i testi da leggere. Nessuno avrebbe potuto prevedere che le immagini sarebbero diventate dominanti come lo sono nell’era della tv e di YouTube. Ora il mio interesse va alla globalizzazione dell’arte in tutte le altre parti del mondo».
Perché l’Islam, ancora oggi, detesta o ha paura delle immagini?
«Il problema non è l’uso delle immagini nell’Islam. Che sia scultura, architettura o pittura l’Isis vuole cancellare le reliquie degli infedeli distruggendo l’ heritage dei non musulmani. L’Isis attacca tutto quello che nell’Occidente è importante ed è una questione più politica che religiosa. Non è un problema di immagini; scopo della loro distruzione è fare notizia, farsi odiare dalla gente, umiliare l’Occidente. L’effetto è molto più importante dell’oggetto della distruzione. È una catastrofe incredibile quella di Palmira e l’Occidente è molto debole di fronte a quanto avviene».
I cattolici, invece, continuano a credere nell’immagine anche quando, come reliquia, viene screditata dalla scienza. È il caso della Sindone…
«La Sindone non è un’immagine ma un lenzuolo di sepoltura. Non si può dire che sia una falsificazione perché nel Medioevo nessuno avrebbe potuto falsificare un tale simbolo. Non sappiamo oggi se sia Cristo o non lo sia. Abbiamo un elemento antropologico sicuro: la gente vuole le immagini di quello che adora, e vuole immagini speciali, diverse dalle altre».
Pierluigi Panza
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