NEW YORK . I soliti sospetti sono loro: la Cina e il superdollaro. Un rallentamento dell’export americano, causato dalla frenata dei mercati emergenti nonché da un cambio più forte e quindi penalizzante: è questo uno dei fattori chiave per capire il netto raffreddamento della crescita americana. Che nel giro di sei mesi è passata dalla performance “stellare” del secondo trimestre (+3,9%) a quella mediocre del terzo: appena +1,5%. Se la locomotiva cinese rallenta, quella americana perde colpi. Il dato è importante sia per le ricadute sulla crescita mondiale, eurozona inclusa, sia perché può influenzare le prossime decisioni della Federal Reserve sui tassi d’interesse.
Oltre all’export ostacolato dai venti contrari, per l’economia Usa l’altro elemento frenante è stato un ridimensionamento negli investimenti in scorte: è un tipico segnale di sfiducia da parte delle imprese, che così facendo anticipano un calo della domanda. Invece rimane vigoroso l’andamento dei consumi delle famiglie, a +3,2% durante i mesi estivi. La maggior parte degli analisti ora si aspettano che il quarto trimestre 2015 si chiuda con una crescita del 2,5%. Venerdì prossimo un dato cruciale sarà quello sull’occupazione di ottobre.
Il quadro “tiepido” sembra giustificare le ultime decisioni della Fed – che ha lasciato passare i suoi meeting di settembre e ottobre senza alzare il costo del denaro – ma al tempo stesso lascia la porta aperta alla possibilità che il rialzo dei tassi avvenga a dicembre. Sarebbe la fine di un eccezionale periodo di “tasso zero” durato ben sette anni. L’ultima riunione utile di quest’anno la Fed la terrà il 15 e 16 dicembre. Il meeting della banca centrale conclusosi questo mercoledì ha mandato segnali che il rialzo dei tassi potrebbe accadere proprio allora. I mercati ora sono convinti che la probabilità sia superiore al 50%. La Fed infatti al termine della riunione di mercoledì è apparsa un po’ meno pessimista che a settembre. Nell’ultimo comunicato infatti, l’istituto presieduto da Janet Yellen ha tolto i riferimenti alle turbolenze finanziarie globali, che invece a settembre figuravano come un chiaro elemento di preoccupazione.
Che cosa avrebbe reso la Fed un po’ meno preoccupata dai venti contrari che soffiano dall’economia globale? Tra gli sviluppi positivi di recente c’è stato il reiterato intervento della sua consorella cinese, con riduzioni dei tassi d’interesse e altre misure in favore di una maggiore liquidità, non accompagnate da ulteriori svalutazioni del renminbi (come quelle che durante l’estate allarmarono i mercati). A Washington come a Wall Street, le ultime mosse delle autorità cinesi sono state accolte favorevolmente. Se la Cina riesce a navigare questa transizione turbolenta, e il rallentamento della sua crescita diventa un “atterraggio morbido”, anche i danni sugli Stati Uniti potrebbero rimanere abbastanza contenuti. A questo punto l’attenzione della Fed può tornare a concentrarsi prevalentemente sull’economia domestica, la cui “resilienza” è soddisfacente.
Non si placa però in seno alla Fed il dibattito tra falchi e colombe: queste ultime hanno la sponda di molti economisti neokeynesiani, da Paul Krugman a Larry Summers, convinti che la “stagnazione secolare” impone di prolungare delle terapie audaci di politica monetaria. A destra un assaggio delle resistenze si è visto durante il dibattito televisivo tra candidati repubblicani alla presidenza: molti di loro hanno invocato controlli e sanzioni sulla Fed accusandola di una politica monetaria irresponsabile.