«IL PENTAGONO ha speso 500 milioni per addestrare cinque ribelli anti- Stato Islamico. Speriamo siano cinque Terminator». Il sarcasmo è di John Mc-Cain, l’avversario di sempre di Barack Obama in politica estera, il repubblicano più autorevole sui temi strategici. Gli fa eco l’umorismo sprezzante del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov: «I ribelli moderati che appoggia Obama? Sono dei fantasmi. Nessuno sa nulla di loro». È per reagire a queste percezioni che Barack Obama lancia un riesame della sua strategia in Siria. Tanto più urgente, ora che la Russia si agita militarmente in quel teatro di guerra, provocando tensioni a non finire, inclusi gli sconfinamenti nello spazio aereo della Turchia ( membro Nato).
Obama non ci sta a farsi descrivere come «il leader dalla retroguardia» (altra battuta di McCain) che abbandona la Siria alle scorribande di Vladimir Putin. Il suo nuovo piano è anticipato dal New York Times che ne rivela due elementi. C’è la preparazione di una nuova offensiva nella Siria nord-orientale, un “grosso fronte” che deve mettere sotto pressione Raqqa, capitale dello Stato Islamico (Is). L’attacco terrestre dovrebbe mettere in campo le forze più affidabili e filo-americane, cioè i peshmerga curdi, insieme con un nuovo battaglione di combattenti arabi. Con un certo squilibrio fra loro: i curdi possono schierare 20.000 soldati di provata efficacia, mentre i nuovi combattenti arabi sarebbero al massimo 5.000. Un’altra operazione affidata alle milizie dei ribelli siriani, è la “chiusura totale” di 60 miglia del confine fra Turchia e Siria, un settore dal quale continuano a passare rifornimenti di armi e di volontari jihadisti verso le aree controllate dall’Is. A sostegno di queste due offensive terrestri, dovrebbe partire un’altra fase nei raid aerei, stavolta usando soprattutto la base aerea più vicina, quella di Incirlik in Turchia. L’avvio di questa nuova fase nelle operazioni della coalizione, è anche la conseguenza dello “stallo tattico” riconosciuto esplicitamente dal generale Martin Dempsey, che di recente ha lasciato la guida delle forze armate Usa.
I sarcasmi dell’opposizione repubblicana Washington, e anche le critiche venute da Hillary Clinton (che propone una no-fly zone e corridoi umanitari in Siria) sono un problema per Obama. Ma non così recente come quello posto da quando la Russia è entrata in azione. A una settimana dal primo annuncio che Putin diede qui a New York durante l’assemblea Onu, per Obama è diventato urgente reagire. Molti lo accusano di avere “lasciato la Siria ai russi”, magari dimenticando che la Siria è “dei russi” almeno dal 1971, anno d’inaugurazione della base aerea — allora sovietica — a Latakia, e di quella navale a Tartus. Tuttavia il ritorno di Putin come attore decisivo in Medio Oriente, è una sfida per Obama. La Casa Bianca non può sottovalutare le implicazioni dell’intervento militare russo. In sette giorni di bombardamenti, gli americani si sono convinti che Putin non sta attaccando l’Is bensì l’opposizione filo-americana. Il teorema secondo cui bisogna appoggiare Assad “unico baluardo contro il terrorismo”, è un’invenzione di Putin che la Casa Bianca contesta — Assad ha più volte appoggiato i jihadisti. Più nell’immediato, crescono i rischi di “incidenti”: tra la coalizione guidata dagli Usa, e l’aviazione russa. Il piano per “de-conflict”, cioè la consultazione tecnica fra militari americani e russi finalizzata a prevenire collisioni e altri incidenti involontari, per ora funziona poco. Figurarsi cosa potrà accadere quando entreranno in funzione i cosiddetti “volontari russi”: cioè scatterà anche l’intervento militare terrestre sotto la guida di Putin. Obama deve vedersela anche con il crescente nervosismo dei suoi alleati arabi, dall’Arabia saudita al Qatar, esasperati per l’appoggio russo al regime di Assad. All’interno della Siria 41 fazioni ribelli denunciano «la brutale occupazione russa che preclude ogni soluzione politica».
«Putin non fa altro che gettare benzina sul fuoco», continua a ripetere il segretario Usa alla Difesa, Ashton Carter. Ma ora Obama punta su una risposta concreta, sul terreno, e si affida alla Syrian Arab Coalition: questo il nome della nuova coalizione tra una dozzina di fazioni ribelli, che dovranno combattere a fianco dei peshmerga curdi conto l’Is. Una presenza importante anche politicamente: per rassicurare la Turchia che diffida dei combattenti curdi. Sperando che questa Syrian Arab Coalition non sia l’esercito delle ombre dileggiato da Lavrov. E che plachi l’ira del Congresso per quei 500 milioni di dollari pagati dal contribuente americano.