L’algoritmo che ci conosce meglio di una persona

L’algoritmo che ci conosce meglio di una persona

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Nel 2002 milioni di persone sentirono parlare per la prima volta di un sistema capace di prevedere gli omicidi: era stato messo a punto a Washington, si chiamava Precrime. Non esisteva, naturalmente, ma era il frutto della fantasia dello scrittore Philip K. Dick, raccontato per immagini dal regista Steven Spielberg in Minority Report .
Tredici anni dopo, nella realtà, James Max Kanter e Kalyan Veeramachaneni, suo mentore al Mit, il Massachusetts Institute of Technology, hanno inventato una macchina che riesce a prevedere i comportamenti umani meglio degli stessi esseri umani. Si chiama Data Science Machine ed è un grande programma che in tre competizioni pubbliche è riuscito a fare meglio di 615 su 906 ricercatori in carne e ossa.
L’algoritmo di Kanter e Veeramachaneni, in particolare, è riuscito ad anticipare con maggiore attendibilità se uno studente avrebbe abbandonato gli studi entro dieci giorni, se un consumatore avrebbe ripetuto un certo acquisto e se un progetto di crowdfunding sarebbe risultato emozionante. La previsione sullo studente, più delle altre, ha affascinato gli analisti: se i ricercatori si erano concentrati, senza successo, su fattori come la lettura degli appunti della lezione o il ritardo nell’occuparsi delle proprie criticità, la Data Science Machine aveva dato importanza ad altro, per esempio al tempo passato dal ragazzo sul sito online del corso che stava seguendo.
L’algoritmo aveva impiegato da due a dodici ore per produrre i risultati attesi, mentre i gruppi di lavoro composti da uomini avevano lavorato mesi interi per individuare i modelli e le variabili più rilevanti. Stupiti? In realtà, per dirla con Marco Fattore, che si occupa di Statistica applicata e Data Science all’Università Bicocca di Milano, «è abbastanza normale che un programma riesca a fare previsioni meteo più attendibili delle nostre se ora ci mettiamo a guardare il cielo». Fattore riconosce un punto straordinario al super cervellone americano: «Elabora una mole di lavoro enorme, ha una capacità di analisi molto potente, e inoltre ha una grande polivalenza. In linea teorica non si può escludere di utilizzare in futuro l’algoritmo del Mit per aiutare un ragazzo a orientare la sua scelta del liceo. Anche se io, personalmente, non affiderei mai i miei figli a un software : la vita è un’altra cosa, con variabili imprevedibili, difficilmente interpretabili da una macchina».
Ed è il motivo per cui Giampaolo Scalia Tomba, che all’Università Tor Vergata di Roma insegna Metodi statistici in diversi corsi di laurea, riconosce i meriti dei sistemi «sempre più intelligenti nel mettere in relazione tra di loro le migliaia di dati che seminiamo ogni giorno, al supermercato o sul motore di ricerca del nostro computer», ma sottolinea il limite per lui ancora insormontabile di tutti gli algoritmi: «Ci dicono con maggiore attendibilità che faremo una cosa, ma non perché. Eppure i dati bisogna interpretarli, e le macchine non riescono ancora ad aiutarci perché non semplificano il nostro rapporto con la realtà. In definitiva, con loro il pensiero non avanza».
Su questo concorda il collega Fattore: «Ben vengano le macchine che ci tolgono il lavoro sporco. Il punto, però, non è trovare risposte giuste, ma farsi domande nuove. E questo è un elemento profondamente umano che nessun algoritmo riuscirà mai a sostituire».
In fondo, l’archivio di Precrime, in Minority Report , era stato fatto con le immagini dei veggenti, cioè di esseri umani con poteri extrasensoriali. Neppure allora la macchina superò l’uomo.
Elvira Serra


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