Il wahabismo, un radicalismo messianico nato nel Diciottesimo secolo, spera di ristabilire un fantomatico califfato basato sul deserto, un libro sacro e due luoghi santi, Mecca e Medina. Nato nel massacro e nel sangue, si caratterizza per un rapporto surreale con la donna, la preclusione dei territori sacri ai non musulmani e leggi religiose spietate. Ciò si traduce nell’odio ossessivo contro l’immagine e la rappresentazione, quindi l’arte, ma anche il corpo, la nudità e la libertà. L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito. Colpisce come l’Occidente lo neghi: saluta la teocrazia come suo alleato, ma fa finta di non notare che è il principale sponsor ideologico della cultura islamica. Le generazioni estremiste più giovani del cosiddetto mondo arabo non erano nate come jihadiste. Erano incubate nella Fatwa Valley, una sorta di Vaticano islamico con un’industria immensa che produce teologi, leggi religiose, libri, politiche editoriali e campagne media aggressive.
Si potrebbe ribattere: l’Arabia Saudita stessa non è un possibile bersaglio di Daesh? Sì, focalizzarsi su questo significherebbe trascurare la forza dei legami tra la famiglia regnante e il clero da cui dipende la sua stabilità — e anche, sempre di più, la sua precarietà. I reali sauditi sono costretti in una trappola perfetta: indeboliti dalle leggi di successione che incoraggiano il ricambio, si aggrappano a legami ancestrali tra il re e i predicatori. Il clero saudita produce l’islamismo che minaccia il Paese legittimando al contempo il regime. Bisogna vivere nel mondo arabo per capire l’immenso potere dei canali televisivi religiosi di trasformare la società raggiungendo i suoi anelli più vulnerabili: famiglie, donne, aree rurali. La cultura islamica è diffusa in molti Paesi — Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Mali, Mauritania. Ci sono migliaia di giornali islamici e autorità religiose che impongono una visione unitaria del mondo, le tradizioni e l’abbigliamento in pubblico, le leggi statali e i costumi sociali che ritengono contaminati.
Vale la pena leggere certi giornali islamici per constatare le loro reazioni agli attacchi di Parigi. L’Occidente è rappresentato come una terra di “infedeli”. Gli attacchi sono il risultato dei massacri contro l’islam. I musulmani e gli arabi sono diventati i nemici dei secolari e degli ebrei. La questione palestinese è associata alla devastazione dell’Iraq e al ricordo del trauma coloniale, ed è confezionata in un discorso messianico volto a sedurre la massa. Quei discorsi vengono diffusi all’interno della società mentre, esternamente, i leader politici mandano le loro condoglianze alla Francia e denunciano un crimine contro l’umanità. Questa situazione totalmente schizofrenica si accompagna alla negazione delle aree oscure dell’Arabia Saudita da parte dell’Occidente.
Questo ci fa diffidare delle altisonanti dichiarazioni delle democrazie occidentali sulla necessità di combattere il terrorismo. La loro guerra non può che essere miope, in quanto mira all’effetto piuttosto che alla causa. Dato che Daesh è anzitutto una cultura, non una milizia, come si fa a evitare che le generazioni future si uniscano al jihadismo se rimane intatta l’influenza della Fatwa Valley e del suo clero, della sua cultura e della sua immensa industria editoriale?
La cura della malattia è dunque semplice? È difficile. L’Arabia Saudita rimane un alleato dell’Occidente in numerosi scacchieri mediorientali. È preferita all’Iran, a quel triste Daesh. Ed è qui la trappola. La negazione crea l’illusione dell’equilibrio. Il jihadismo è denunciato come il flagello del secolo senza considerare cosa l’abbia creato o sostenuto. In questo modo si salvano le facce ma non le vite.
Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e il suo apparato religioso- industriale. Finché non si comprende questo, si possono vincere le battaglie, ma si perderà la guerra. I jihadisti saranno uccisi, solo per rinascere nelle generazioni future e crescere sugli stessi libri. Gli attacchi di Parigi hanno nuovamente evidenziato questa contraddizione, ma questa, come è accaduto dopo l’11 settembre, rischia di essere cancellata dalle nostre analisi e coscienze.
Traduzione Ettore C. Iannelli © The New York Times