I 5 mila morti e i 448 miliardi di danni che lo Stato non è riuscito a evitare

I 5 mila morti e i 448 miliardi di danni che lo Stato non è riuscito a evitare

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«Se ti addiviene di trattare delle acque consulta prima l’esperienza e poi la ragione», spiegava Leonardo: è la storia dei disastri già avvenuti che dice dove si corrono rischi gravissimi. Macché: mai ascoltato. Né a Messina, come dimostrano le cronache di oggi, né in tutto il Paese. L’avessero fatto non avremmo pianto migliaia di morti e non avremmo speso almeno 49 miliardi per le sole frane e alluvioni. Quattro nel solo 2014.
Va temuta, l’acqua. E il genio da Vinci l’aveva capito bene: «L’acqua disfa li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potessi». Va rispettata, l’acqua. Temuta e rispettata. Ce lo ricorda un libro che esce oggi, «Un Paese nel fango», edito da Rizzoli e firmato da Erasmo d’Angelis, direttore dell’ Unità ma fino a pochi mesi fa capo a Palazzo Chigi della Struttura di missione sul dissesto idrogeologico. Ruolo che gli ha permesso di raccogliere numeri, statistiche, studi e dossier per tracciare un quadro d’insieme dell’Italia. Quadro a tinte fosche.
Certo, non siamo gli unici ad avere stuprato la natura né gli unici a subirne le vendette. «Dieci anni fa l’economista Sir Nicholas Stern, già responsabile finanziario della Banca Mondiale», spiega D’Angelis, seminò il panico «con il suo report The Economics of Climate Change , dimostrando ai signori della finanza che se i mutamenti climatici non verranno arginati costeranno tanto da mettere in ginocchio l’economia mondiale». L’Intergovernmental Panel on Climate Change, un’organizzazione scientifica dell’Onu, «ha da poco quantificato l’impatto delle catastrofi future in oltre mille miliardi di dollari. Nel 1980 il costo ammontava a 50 miliardi l’anno, oggi a 200».
Noi, però, stiamo messi perfino peggio degli altri. Basti dire che le nostre 499.511 frane censite (di cui 2.940 attive) rappresentano il 69% di tutte quelle mappate in Europa. O che 21,8 milioni di italiani vivono in 5 milioni e mezzo di edifici privati (la metà del totale: 11,2) «ubicati in zone a pericolosità sismica». E che «nelle stesse condizioni ci sono altri 75.000 edifici pubblici strategici come scuole, ospedali, caserme, municipi…».
Va da sé che, con un patrimonio immobiliare così esposto alla violenza della natura aggravata da decenni di incuria, abbiamo pagato prezzi altissimi. Almeno 200 mila morti dall’Unità a oggi sotto le macerie di 43 terremoti principali e decine di «minori». Almeno «5.455 morti, 98 dispersi, 3.912 feriti e 752.000 sfollati» in 2.458 comuni nei disastri causati nell’ultimo mezzo secolo dall’acqua.
Per non dire degli altri costi. «Gli economisti dicono che i fiumi di denaro versati dallo Stato attraverso i ministeri, le tesorerie comunali, provinciali, regionali, i consorzi di bonifica, le aziende di servizi pubblici e le donazioni private, e gli ulteriori costi per i danni e i disagi alle famiglie a fronte dei gap infrastrutturali e dei servizi, e per le perdite delle attività produttive private, superano la cifra attendibile di 7 miliardi l’anno dal dopoguerra a oggi». Fate i conti. Partissimo pure dal 1951 segnato da alluvioni disastrose, sarebbero 448 miliardi di euro. Con una accelerazione di anno in anno più marcata.
Ovvio: anno dopo anno si è continuato a costruire, costruire, costruire. Spessissimo abusivamente. In aree a rischio. Spiega uno studio di Bernardino Romano e Francesco Zullo, che per il report 2014 del Wwf «Riutilizziamo l’Italia» hanno messo a confronto la cartografia dell’Istituto geografico militare 1949-1962, le carte dei suoli regionali del 2013 e la crescita della popolazione, che dal censimento del 1951 gli abitanti sono cresciuti del 26% scarso e l’urbanizzazione del 367%. Ancora più impressionante (nonostante la crisi) la quota di cemento pro capite dopo il 2000: 369 metri quadri a testa. Il consumo di suolo è di 73 ettari al giorno. O, come dice d’Angelis, «8 metri al secondo».
Nelle pianure, che rappresentano meno di un terzo del territorio e coincidono in pratica con la Val Padana, «se negli anni Cinquanta, dei 2.489 comuni 571 erano sotto il 2% di urbanizzazione e solo 11 sopra il 45%, nel 2015 troviamo solo 3 comuni sotto il 2%, mentre 163 sono sopra il 45% e 14 oltre il 75%». L’Istat conferma: siamo di fronte a un «impatto ambientale negativo in termini di irreversibilità della compromissione delle caratteristiche originarie dei suoli, dissesto idrogeologico e modifiche del microclima». Accusa D’Angelis: «Sono stati ricoperti di asfalto e cemento persino 34.000 vietatissimi ettari all’interno di aree protette e il 9% delle zone a pericolosità idraulica». Racconta l’ex governatore pugliese Nichi Vendola: «Eletto presidente nel 2005, chiesi a tutti i comuni le mappe del rischio idrogeologico. Li convocai, e mi portarono solo le vecchie carte pluviometriche del 1911. Dico: il 1911! Mancavano almeno tre quarti di aree urbanizzate. Nessuno le aveva mai aggiornate».
Avete presente Olbia, che nell’alluvione del 2013 vide morire tutte quelle persone e a ogni acquazzone va sotto? «Tutti i problemi nascono dai tre condoni edilizi degli ultimi trent’anni, che hanno sanato situazioni di palese e pericolosa illegalità (…) con case costruite nell’alveo dei fiumi», si sfoga nel libro il sindaco Gianni Giovannelli, «la città ha sedici quartieri abusivi: sedici. Dovrei espropriare le case di migliaia di persone e abbatterle: è impossibile».
Matteo Renzi, nella prefazione, ostenta ottimismo. E dice che i cantieri come quello genovese del Bisagno sono stati sbloccati e «oggi vediamo al lavoro operai e ingegneri e non più solo avvocati e giuristi» e «girano betoniere e camion e non soltanto le carte dei ricorsi e dei controricorsi». C’è da sperarlo. Perché, come scrive D’Angelis, «anche in una visione strettamente ragionieristica, sarebbe stato salutare per le casse dello Stato e l’occupazione investire in prevenzione. Quante vite, strazi, rovine, vergogna ci saremmo risparmiati?».
Gian Antonio Stella


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