I BARBARI HANNO PAURA

I BARBARI HANNO PAURA

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PARLIAMO ora della paura che hanno, non di quella che fanno. Non per qualche siringa rinvenuta: un doping sta nel conto anche dei professionisti di stragi. A Parigi, forse, qualcuno di loro ha avuto paura, ha cercato di prendere tempo coi suoi quando già sguazzava nel sangue del Bataclan, si è fatto (o è stato fatto) esplodere fuori dallo stadio.
SENZA nemmeno procurarsi una vittima. Tempo fa, un video dell’Is mostrava un suo ragazzo alla partenza con l’autobomba, che d’improvviso si metteva a lacrimare per nostalgia della vita. Poi i suoi caporali lo carezzavano e ammonivano, e andava a esplodere. Ma c’è altro che gli episodi personali. Vediamo.
Tutto è cominciato con la loro onnipotenza. Ne siamo stati sbigottiti e annichiliti. Quella, cui non eravamo pronti, era l’onnipotenza della ferocia. Le decapitazioni al coltello eseguite alla telecamera senza battere ciglio. Occorre tempo, addestramento, esercizio, per fare dei combattenti. Avevamo preferito non accorgerci di quanto tempo, esercizio e addestramento avessero investito per fare dei tagliagola. Ne era pieno da anni l’oriente più o meno vicino. Come una lunga serie di prove, dall’Iraq all’Afghanistan, dal Pakistan alla Nigeria, e finalmente la prima, recitata sotto le luci di scena, coi costumi, il trucco, il gran pubblico, tutto a posto. Abbiamo avuto una paura terribile. Lo spettacolo del terrore ha una storia antica, ma gli mancava la perfezione della scena planetaria. E questi nuovi attori avevano estirpato da sé, come in una resezione chirurgica, due organi essenziali dell’umanità civile: il rispetto della morte e il pudore, la lentissima conquista della riluttanza e della ripugnanza verso il sacrificio umano consumato immergendo le mani nel sangue e nelle viscere. Uomini così neri, così spietati e sicuri della propria brutalità, così avidi di morte.
Qualcosa del genere devono aver provato i nostri antenati estenuati dalla raffinatezza e dalla decadenza al rumore dell’arrivo dei barbari, e non avevano i video. Hanno avuto paura i peshmerga, agosto 2014, tradendo la loro epopea di veterani e il loro nome di pronti alla morte. Scapparono, a Sinjar, e abbandonarono gli inermi affidati loro. (Resistettero i curdi siriani e turchi, per i quali la condanna a combattere non si era mai interrotta). Un’onta umiliante per quei petti di cicatrici e di medaglie. La lunga inerzia delle potenze, occidente e Russia, oltre che a calcoli loschi di convenienze e sragioni di stato, fu anche il frutto di quella paura animalesca, dunque umanissima. Il Terrore funzionava, cioè terrorizzava. Contro di loro, nella viltà internazionale, rosicchiava un’altra qualità umana, forse la più irriducibile benché spesso spregevole: l’abitudine. Impresari di una compagnia di giro che rischiava la caduta d’ascolti, i programmisti del Califfo escogitavano tormenti sempre più lambiccati, una pirotecnia barocca dell’efferatezza: bambini carnefici, gabbie di uomini bruciati a fuoco lento, annegati ad acqua lenta, crocifissi, decollati, squartati, la gamma dei supplizi di una superstizione laureata in anatomia. Servivano ad alimentare l’affluente del reclutamento internazionale, al grande pubblico arrivavano sempre meno. Intanto qualcuno trovava la forza e la lucidità per reagire. Non esistono uomini invincibili, barbari o no.
Quando fu troppo — Erbil e Bagdad avevano il fiato sul collo, ezidi e cristiani sterminati, le bambine passate da canaglia a canaglia — gli americani decisero che un argine andasse elevato, che qualcosa bisognasse fare. “Qualcosa”, nella contemporanea arte della guerra (!), è il ricorso alla supremazia dall’alto dei cieli — ancora per poco. Beninteso, senza i riluttanti caccia e droni americani il califfato non avrebbe incontrato alcun ostacolo. Con la protezione, misurata, da quel cielo, donne e uomini di Siria hanno tenuto e ripreso Kobane, la prima sconfitta spettacolosa degli uomini neri. Poi sono venuti i riscatti dei peshmerga, attorno a Kirkuk e ora, il giorno prima di Parigi, con la battaglia di Sinjar. A Sinjar si batteva il nerbo dell’armata nera, a difesa di un simbolo prezioso, e delle vie di comunicazione fra le due “capitali”, Raqqa e Mosul. Gli uomini neri erano già scappati a sud di Kirkuk, ora sono scappati a Sinjar. Su quei fronti curdi vi sentirete dire solo la frase orgogliosa: “Adesso sono loro che hanno paura dei peshmerga”.
Ieri fonti clandestine e coraggiose parlavano della fuga disordinata e spaventata degli uomini neri sotto i bombardamenti di Raqqa, e addirittura di donne affacciate a capo scoperto a salutarla. Non so se sia vero, e a che punto. Ma si deve pensare che il terrore esportato a Parigi e in ogni altra nostra contrada non sia l’espansione di un’avanzata onnipotente, ma piuttosto il contraccolpo di una difficoltà: piccola, perché minima è finora la forza messa in campo contro il preteso califfato in Iraq e in Siria. È facile l’onnipotenza di chi, tuta nera e coltellaccio, non trova resistenza: è ovvio, ma l’avevamo dimenticato. A quel nostro sbigottimento apparteneva ancora l’idea che il coraggio sia legato al disprezzo della morte. L’idea di tutti gli inni. L’idea che ci trattiene dal chiamarli vigliacchi perché si mostrano avidi di morire. Ma è un’idea assurda e resuscitata dal panico: la civiltà non è altro che la progressiva consapevolezza che il vero coraggio sia un frutto della ragionevole paura e dell’amore per la vita. La civiltà è tanto più progredita quanto meno è pronta a menare le mani, su un’autostrada o su un campo di battaglia. E se non spinge la dolcezza del vivere fino al suicidio, diventa lei invincibile. È questo il punto cui siamo. (Uso la prima persona plurale. Chi siamo “noi”? Quelli che la sera vanno al bar Bataclan in bicicletta). Li abbiamo lasciati gonfiarsi a dismisura, e non ci sono scorciatoie: siamo in un tempo nuovo, che chiede umani nuovi o rinnovati. Winston Churchill era un personaggio buffo se non ridicolo quando prese in mano le cose. Ma il punto cui siamo è quello in cui gli uomini neri fanno meno paura e hanno più paura.


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