Il distacco tra Chiamparino e il leader: con Matteo non riesco più a parlare

Il distacco tra Chiamparino e il leader: con Matteo non riesco più a parlare

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Peccato, erano così una bella coppia. Avevano molte cose in comune, la voglia di cambiare il Pd, il turbo riformismo, la difesa di Sergio Marchionne, una buona dose di cinismo, la solitudine politica. Adesso non si sentono più. Solo qualche laconico messaggino, ma proprio uno ogni tanto.
E insomma, hai voglia a fare finta di niente, ma poi certe cose si vengono a sapere. Le dimissioni di Sergio Chiamparino dalla presidenza della Conferenza Stato-Regioni, ad esempio. Sono state motivate con una questione di coerenza, il bilancio del Piemonte è una voragine causata dall’interpretazione sbagliata di una ambigua legge nazionale, meglio andarsene per non evitare illazioni e malignità su un eventuale conflitto di interessi. Certo, c’è anche quello, ci mancherebbe. Ma non è un mistero che l’altra ragione di un addio irrevocabile, maturato dopo inutili attese davanti al display del telefonino, è l’assenza di collaborazione e interlocuzione dell’amico giovane, Matteo Renzi, che sembra tanto cambiato dai vecchi tempi.
Quel ruolo ha senso solo se si fa parte di una squadra, di un sistema, ha fatto sapere dietro le quinte l’attuale presidente del Piemonte, ma se Matteo non ascolta nessuno e la squadra non esiste, se non si sa mai con chi parlare, meglio che lo faccia qualcun altro, così almeno io torno libero di dire quel che penso. Non sembrano toni propedeutici a una semplice pausa di riflessione nell’ambito di una storia ancora breve ma piuttosto intensa.
Nel 2011 il più maturo era il sindaco più amato d’Italia quando diede scandalo entrando alla ex stazione Leopolda, la casa del giovane collega toscano che non era ancora nessuno ma voleva essere tutto. Quel giorno insieme ad altri amministratori locali giocarono a «Se io fossi presidente del Consiglio» e si fecero beffe dei «dinosauri del Pd». Parlavano molto, si davano una mano. Nel 2013 il giovane corse alle primarie per scegliere il candidato premier del centrosinistra e l’altro, il piemontese, fece sapere anche ai sassi che avrebbe votato per lui. Quando il Pd riuscì a non vincere quelle elezioni e subì una specie di implosione, il giovane propose l’amico maturo al Quirinale, prima che Giorgio Napolitano succedesse a se stesso. E poi all’improvviso gli astri si allinearono.
La celebrazione ufficiale avvenne il 12 aprile del 2014. Quel giorno l’austero Pala Olimpico sembrava la succursale della Leopolda, con video che mischiavano Maradona, Forrest Gump e Fantozzi, proprio come nelle scapigliate kermesse fiorentine. Forse l’avevano fatto di proposito, per far sentire a casa propria il giovane ospite, che nel frattempo era davvero diventato presidente del Consiglio e aveva scelto Torino come sua unica uscita promozionale per le imminenti elezioni regionali, alle quali si era candidato il vecchio amico, che dal palco ricordò come fosse uno dei pochi a potersi dire renziano della prima ora, rivelando di essersi iscritto nuovamente al Pd, dopo un polemico mancato rinnovo della tessera che durava da qualche anno. A rimarcare le radici profonde del loro legame, una vecchia foto leopoldiana di Matteo&Sergio divenne simbolo della campagna elettorale e di un sodalizio che sembrava reggere alle scosse del tempo e del potere.
Gli addolorati piemontesi renziani danno la colpa ai cromosomi. Quello maturo aveva un nonno soprannominato Barba Lenin, due genitori operai e iscritti al Pci, e a un certo punto stava più a sinistra di loro. Quello giovane: ex democristiano figlio di imprenditore democristiano, e faceva le foto anche con Ciriaco De Mita. Possibile invece che sia una questione di carattere, entrambi sono di attitudine ferrigna, poco malleabile, parecchio orgogliosa. Chiamparino era da un po’ che sbuffava, gentile eufemismo. Da quando è arrivato alla guida di una Regione, istituzione che il suo amico giovane non ama troppo, qualcosa è cambiato. Contatti sempre più rarefatti, silenzi eloquenti, risposte sarcastiche a rilievi fatti da presidente di una struttura che già nel nome contiene l’idea del confronto tra amministrazione centrale e locale.
«Non vado all’incontro di oggi con il governo per spirito di divertimento ma per lavoro» ha detto Chiamparino, a rimarcare una certa freddezza con «l’amico Matteo», le virgolette ormai sono d’obbligo. O qualcuno ci dimostra che i nostri dati sono fasulli, è il ragionamento fatto con i colleghi, e allora ne prendiamo atto, oppure purtroppo sono veri, cosa che a Roma sanno bene. Allora dovrebbe cominciare una trattativa: voi ci date la metà di quel che chiediamo, cerchiamo un punto d’incontro e mettiamoci d’accordo. Invece niente. Sembra quasi che il confronto e il dissenso civile siano una specie di bestemmia in chiesa, ripete spesso il governatore. A chi gli fa notare che la scarsa propensione all’ascolto e i conseguenti silenzi di Renzi sono un problema di tanti, risponde che lui a fare il passacarte non ci sta, quindi avanti un altro. C’eravamo tanto parlati.
Marco Imarisio


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